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sabato 12 settembre 2015

3 anni di MRR: Paranorman

17:18
Il primo post mai comparso da queste parti è stata una recensione su un film di Tim Burton. Ai tempi lo amavo moltissimo, non avrei potuto che iniziare con lui. A commentare quel post furono soltanto il mio ragazzo e due amici, una dei quali oggi è uscita silenziosamente dalla mia vita. 
Cerco di non rileggere mai le cose scritte molto tempo fa perché se penso che qualcun'altro oltre a me possa avere messo lo sguardo su certi scempi mi viene un piccolo prurito che mi spinge verso il suicidio.
Poi in realtà sono tutti lì, eh, indicizzati insieme ai post di cui mi vergogno un po' meno. Per me è una questione sentimentale, o tutti o nessuno. Ho lasciato pubblici e mai corretti anche post riguardanti film su cui ho abbondantemente cambiato idea, perché mi dispiace manometterli dopo tutto questo tempo. Mi servono anche per capire se noto dei miglioramenti o meno, ma a voi forse la mia severa autocritica interessa poco.
Per questo mi sembrava carino festeggiare insieme il terzo (terzo? jesoo, mi sembra di avere iniziato da cinque minuti) bloggheanno parlando di un film che ricorda i tempi d'oro del buon Tim solo all'apparenza.
Perché in realtà è molto, molto meglio.


Norman, a cui dobbiamo l'adorabile gioco di parole del bellissimo titolo, è una strambo ragazzetto che parla con i morti. La cosa non lo turberebbe minimamente se a rompergli le scatole non ci fossero praticamente tutti quelli che lo circondano. Smetteranno di prendersi gioco di lui solo quando si accorgeranno che, grazie al suo dono, Norman sarà l'unico in grado di salvare la città. 

Paranorman si prenderà il vostro cuore più o meno al minuto 01.30 e se lo terrà stretto, strettissimo fino alla fine, quando avrete la desolante certezza che il vostro organo vitale non vi sarà mai restituito. Rimarrà a battere lì, su quel furgoncino malconcio (o su quello che ne resta), in quell'archivio comunale oppure, più probabilmente, nella camera da letto di Norman. Perché già l'inizio di questo film sarà sufficiente ad inumidirvi gli occhi. Poi chiaramente non si fermerà lì, ma c'è questa splendente partenza: ragazzino strambo sul divano che parla con la nonna. Niente di più normale, vero? 
È proprio un peccato che la nonna in questione sia defunta da tempo. 


Dal primo rimprovero familiare che ci è mostrato in avanti, la vita di Norman è francamente uno schifo: famiglia che non lo capisce, amici non pervenuti, fantasmi che invece che essere d'aiuto ostacolano la già difficile situazione, bulli molesti e uno zio che spunta dal nulla per dirti che hai giusto qualche ora per salvare tutti quanti.
Come se la meritassero, la salvezza.
L'umanità è ritratta come una becera e bigotta vecchia signora, di quelle detestabili che puzzano di antibiotici e profumi fuori moda. Tutto ciò che è diverso, nella città in cui il bambino si è trovato a vivere, spaventa. E quando qualcosa ti spaventa non solo non ti fai avvicinare, alzi anche difese non necessarie affinché nessuno possa farti male, nemmeno chi di farti male non ne aveva la minima intenzione.

Con chi riesce a comunicare Norman? Con chi, come lui, è differente. Il suo unico amico è vittima dei bulli per il suo peso, lo zio che gli affida il compito è considerato folle (e forse qualche rotella in effetti gli manca) perché ha lo stesso dono del nipote, gli zombie sono notoriamente causa di orrore e raccapriccio. Quello che rende Norman speciale, quindi, non è il suo dono. È la capacità che ha dimostrato, in ogni singola azione compiuta nel film, di saper andare sempre oltre le apparenze, anche quando queste fossero mostruose come quelle dei morti viventi. Ne è intimorito come tutti, non fraintendetemi, è un personaggio umano. Ma è disposto a rivedere la sua opinione non appena gli arriva un segnale positivo. Non si blocca nelle sue convinzioni, ASCOLTA. 
È troppo facile cambiare opinione su una persona nel momento in cui sta in piedi davanti al municipio a salvare le chiappe a tutti quanti. Lui ci arriva prima, si apre alla possibilità che chiunque abbia qualcosa di buono da dargli, che ogni azione negativa compiuta da qualcuno possa avere una motivazione dietro che ti spinga a guardarla con occhi diversi.


Sarebbe altrettanto facile lanciare grandi messaggi come questo, sulla tolleranza e sull'imparare il valore incredibile della diversità, con mallopponi filosofici polacchi in b/n con i subs in cirillico. Invece Paranorman è una perla di comicità, sia molto intelligente che più semplice, di quelle che ti possono far ridere per una grande citazione che di quelle che ti fanno lacrimare per le botte da orbi che sti poveri zombie si pigliano immotivatamente. O per questi personaggi così macchiette che riescono comunque a non essere mai esageratamente caricature. (Lo sono, ma in un modo talmente equilibrato che quasi non te ne accorgi).
E, a proposito delle citazioni, posso togliermi un sassolino nella scarpa? 
Dai, oggi è il nostro compleanno, concedetemelo.
Non me ne frega niente delle citazioni. 
Ma zero proprio.
Sono una chicca gradevolissima per chiunque le colga, ti fanno fare un adorabile 'awwwwwww' quando arrivano, poi basta però.
In questo caso non aggiungono valore al film, Paranorman non ne ha bisogno, sarebbe incantevole comunque. Si farà amare da chiunque, a prescindere che abbia colto quel Mario Bava lì nella prima parte. 
Si piange di quella commozione bellissima che solo i film dolci con personaggi così adorabilmente comici provocano.
Ed è quel tipo di commozione che io amo tanto, e che ricerco in ogni pellicola che vedo.

Per questo mi sento di offrire a voi questa che per me è l'emozione più bella del mondo, nel terzo anno che passiamo insieme, anche solo parlandovi di un film. 
Non c'è modo migliore di festeggiare.

martedì 28 luglio 2015

Tratto da un racconto di Stephen King: Stand by me

23:04
(1986, Rob Reiner)

Ho pensato a lungo su quale potesse essere il film migliore da trattare individualmente perché per quanto ci ostiniamo a dirlo, non è vero che ogni film tratto dai lavori del troppo nominato Stephen King fa pietà.
Alcuni fanno piangere dall'amarezza (Mercy, Mercy, Mercy!!), altri sono minuscole caccolette in confronto alle parole del Meraviglioso, e poi ci sono quelli belli.
Che quando dico belli intendo Belli.
E sarebbe facile stare qua a elencare i motivi per cui ritengo Shining l'unico film al mondo degno di essere chiamato Perfetta Opera D'Arte, oppure ribadire l'intramontabile fascino di Carrie o Misery.
Ma lo sappiamo già.
(Non che ribadirlo faccia male, ANZI, qua siamo a favore del repetita iuvant)
Di fianco a questi colossi dell'horror, però, ci sta Stand by me. 
Che titolo bellissimo, eh?
Stammi accanto.


Non importa a quanti anni si affronti la visione di Stand by me per la prima volta. Non importa che siate stati bambini composti e beneducati o coloriti maschiacci poco puliti. Non importa nemmeno che i vostri film preferiti siano di tutt'altra pasta. E non importa neanche se pensate che il solito autore sia un mediocre essere come tanti altri.
Stand by me è la trasposizione in pellicola del racconto in cui il Nostro ci mostra tutta la sua capacità di prendere l'animo umano e riproporlo in parole. In cui dimostra che non serve essere bambini per raccontare i bambini.
Basta una buona memoria.
Perché non c'è niente di più reale e universale della voglia di avventura (di qualunque tipo essa fosse, non c'è certo bisogno di scappare di casa di nascosto per viverne, anche se lo sognavamo tutti), e del desiderio di viverla con i volti cari dei nostri amici. Quegli stessi amici che prendono il tuo grande dolore e lo stritolano sotto le mani quando ti abbracciano, o quando ti danno un pugno, o quando ti buttano giù da un ponte per impedire che il treno vi investa entrambi.
Il dolore, sì, quello che già a 13 anni senti fortissimo alla bocca dello stomaco, anche quando magari non ne puoi comprendere tutte le implicazioni ma che può comunque rovinarti il funzionamento dell'apparato digerente e il ritmo sonno-veglia.
Essendo così giovane guardo a quell'età con ancora troppo coinvolgimento, non ho il distacco necessario per analizzarla come si deve.
Anche se, in effetti, ci si stacca mai dal noi stesso bambino?
King non lo ha fatto, ma nemmeno Reiner.
Che è riuscito a rendere, in un modo incantevole, tutto lo splendore di quegli anni, quando un secondo prima ti atteggi a uomo vissuto con la sigaretta in bocca e quello dopo preghi i tuoi amici di non raccontare storie dell'orrore perché te la fai sotto.
O quando vorresti trascorrere le giornate in spensieratezza, a cantare canzoncine per insultare le mamme dei tuoi amici (questo non passerà mai di moda) e a scappare dai bulli, come ci si aspetta che tu faccia a quell'età, e invece vivi col tremendo dolore della perdita di un fratello, o con la complicata convivenza con un padre difficile.
Quando vorresti essere già adulto e nello stesso tempo non esserlo mai.


Di tutte le scene iconiche che Stand by me ci regala, quella che preferisco e che credo renda perfettamente in immagini tutto il discorsone fatto sopra è una breve scena in cui i quattro amici stanno camminando in file da due. I ragazzi dietro stanno parlando del loro futuro, dei loro genitori difficili, dei loro desideri anche lavorativi. I due salamotti che stanno davanti, invece, discutono animatamente su chi sia più forte tra Braccio di Ferro e Superman. Entrambe conversazioni che riescono ad essere perfettamente legittimate dall'età dei protagonisti. Teneramente commovente, con quel loro modo di essere così goffi e impacciati, e quel sentirsi già così maturi. E così per tutta la durata di questo sognante e incredibile film, in cui scene dolcemente comiche si alternano a quelle altrettanto dolci ma struggenti.
Quanto è struggente vedere questi ometti entrare nel nero del dolore e cercare di nuotarci in mezzo, perché è proprio qui che stanno imparando come si fa a starci a galla. In un battito di ciglia avranno già imparato a gestirlo, ma ora sono qui e devono sbattere forte le gambe, anche se dopo un po' fa male e vengono i crampi.
Non ci si sveglia un mattino improvvisamente più grandi, saggi e ragionevoli. Si cresce minuto dopo minuto, su quelle rotaie in cui un passo non è mai compiuto dalla stessa persona che ha mosso quello precedente.
E non te ne accorgi mai, che stai crescendo.
Tu vivi, e basta.
Quando ti fermi a riflettere ti accorgi che magari è cambiato il modo di vedere le cose, o che i tuoi interessi non sono più gli stessi, che è mutato persino il tuo modo di rapportarti con le altre persone. Ma quando tutto questo stravolgimento sia avvenuto, tu mica lo sai.
Tu stavi solo passeggiando sui binari.

lunedì 20 luglio 2015

Tratto da un racconto di Stephen King: A volte ritornano

18:21
Nel 1978 esce la prima raccolta di racconti del Nostro. Si chiama Night Shift, distribuito in Italia come A volte ritornano. 
Venti racconti uno più bello dell'altro (continuo a credere che lui dia il meglio di sè nelle narrazioni brevi, per quel poco che ne posso sapere io), da cui, ovviamente sono stati tratti svariati film, alcuni più famosi di altri.
Fil rouge: mi han fatto tutti schifo. O quasi.


Grano rosso sangue, 1984, Fritz Kiersch 


I pugni sono roba facile. Un po' troppo visti.
Gli schiaffoni, invece, quelli proprio a mano aperta in pieno viso, sono più umilianti. Sono 'ho fatto il cattivo e il papà mi dà una bella sberla'.
Per questo, quando alla fine di Grano rosso sangue il protagonista Burt prende a pizze in faccia il giovane Malachia a due a due fino a che diventano dispari, io ho goduto profondamente.
Malachia è un giovane che vive nella cittadina di Gatlin. Cittadina strana, quella, ci vivono solo ragazzini. Burt e Vicki, una coppia in viaggio, si ritrovano lì perché hanno investito un bambino e vogliono andare a denunciare l'incidente alla polizia. Ma niente adulti, niente polizia.
Sapete quanti Grano rosso sangue ci sono? Qualcosa come SETTE. Sei sequel per un film che ok ha fatto buoni incassi (che poi in questi casi è tutto ciò che conta) ma che risulta essere un mediocrissimo lavoretto con molto poco da dire. 
Non mi basta che mettiate un cappello nero in testa ad un ragazzino dal viso angelico per rendermelo inquietante, vi dirò.
Perché nel racconto si arriva nella cittadina con calma, in un clima che parte già teso per la coppia in procinto di divorziare, con approfondite descrizioni dei campi di grano che paiono essere l'unica cosa presente, si sente leggendo il vento che li muove.
Sapete cosa fa rabbia? Che il film inizia bene. In un ridente paesello di campagna del Nebraska tutti i cittadini sono bravi cristiani che dopo la funzione domenicale si fermano alla tavola calda a fare una bella colazione tutti insieme. Inizia a questo punto una mattanza messa su dai bambini del villaggio, fatta di caffè avvelenato, coltelli e botte. 
Ecco, un efficace inizio che si rivela la sola cosa funzionale del film. Mi rendo conto che per chi lo abbia visto magari nell'infanzia possa stare comodo negli abiti di culto, ma io l'ho visto a 24 anni, capitemi.

The Mangler, 1995, Tobe Hooper


'Hai provato a pensare che la macchina sia maledetta?'
'Sì, come no.'
'No, non maledetta, posseduta!'
Ah, scusa, adesso sì che mi torna.
Non è che voglia fare la saputella, perdonatemi, ma mangler vuol dire stiratrice. Ora, se mi fai un film su una stiratrice maledetta, lo devi fare in un certo modo, perché è piuttosto evidente che non ci troviamo di fronte a materiale di sua natura particolarmente inquietante.
Detto ciò, quello che penso io è che con certe premesse si poteva tirare fuori una comedy horror indimenticabile. Perché è una STIRATRICE, capito?
Una di quelle idee che solo quel beotone di Stephen King poteva tirare fuori, perché secondo me quello lì nel cervello non ha convenzionale materia grigia ma chiaramente altro. Il fatto che fosse uso alle sostanze illecite e all'alcool può anche avere dato una sua buona mano.
Questa, di stiratrice, sta in una ditta, la Blue Ribbon Laundry, in cui i dipendenti (e quelli che stanno loro intorno) iniziano a cadere come i dieci piccoli indiani di Christiana memoria. Indagano un poliziotto e un suo amico, quello che lo voleva convincere che la suddetta macchina fosse maledetta. No, non maledetta, posseduta.
Che poi io lo capisco anche, eh, Tobe Hooper. Se uno dei tuoi primi film ti esce storico, un culto, una perla, un amatissimo filmone che nessuno mai dimenticherà, poi sei costretto a essere sempre all'altezza. Allora ci riprovi, ti viene Poltergeist, pensi di essere a posto per la vita.
E invece no, la gente vuole altro, altri film tuoi, quando tu magari vorresti essere a Mauritius a farti spalmare di spf 50 per evitare le rughe.
Poi si lamentano se ti vengono come The Mangler. 
Io lo so che ci hai provato, bello mio, che hai detto 'spetta che mettiamo Robert Englund così tutti guardano lui e nessuno nota che in fondo sono un registino così buttato lì e basta.'
Invece no, l'abbiamo notato.
Mi spiace.

L'occhio del gatto, 1985, Lewis Teague


Se mi date un film horror a episodi il cui filo conduttore è un gatto secondo i miei professionali e competenti canoni di giudizio già dirò che si tratta di un'opera straordinaria.
Poco importa se farà schifo.
La bella notizia in questo caso è che il film non è brutto.
Gli episodi sono 3, dei quali solo i primi due sono tratti da due racconti di A volte ritornano.
Nel primo, Quitters Inc., vediamo un uomo rivolgersi alla ditta che dà il nome al titolo per farsi aiutare a smettere di fumare. I metodi da loro utilizzati si riveleranno, come dire, poco ortodossi.
Il secondo ('Il cornicione') invece ci mostra come una specie di grasso mafioso scommettitore usi il suo vizio delle scommesse anche contro l'amante della moglie. Un episodio abitato da una manica di deficienti che però mi ha intrattenuto piacevolmente, riuscendo anche a farmi provare del sano disgusto nei confronti del nostro benestante 'benefattore'.
Nel terzo, chiamato 'Il Generale', infine, ritorna il nostro beneamato felino, questa volta in veste eroica, in quanto pronto a salvare una giovane e deliziosa bimbetta dalle grinfie di un troll (che, in modo del tutto inaspettato, non si trova nei sotterranei. cit).
Quale sia finito in testa alla classifica lo capite bene da voi.
(No, in realtà ho apprezzato molto il primo corto ma poiché il mio amico felino viene torturato non ho il coraggio di ammetterlo a voce alta.)

Brivido, 1986, Stephen King


Io ti prego Stephen di posare quella macchina da presa e di venire qua a sederti vicino a me. Calmati, questo incubo è finito. Basta, basta.
Film mai più.
Solo solo solo libri.


giovedì 18 giugno 2015

Non solo cinema: Julia

08:42
QUALCHE SPOILER PERCHE' SONO UN'INCAPACE

Fino a qualche tempo fa ero convinta che Peter Straub fosse il vicino di casa sfigatello di Stephen King, il quale mosso a compassione aveva aggiunto il nome dell'amico accanto al suo in certi titoli.
Invece no!
Peter Straub ha grossomodo quella faccia qui:


Oltre a teneri occhialini rossi cum coppola, il signor Straub ha anche una gran bella penna con cui scrive tanti romanzi horror.
Si è avvicinato al mondo del fantastico con questo breve Julia, nel quale dà al romanzo il titolo della sua protagonista.

Julia, appunto, è una donna che, in seguito alla perdita in circostanze tragiche della figlia Kate, decide di lasciare il marito Magnus. Compra una nuova casa, nella quale però accadono strani eventi che la portano a indagare sul passato dell'abitazione e dei suoi precedenti inquilini.


Non mi ha comprata da subito, il libretto di Straub, anzi.
Proseguendo, però, la realizzazione che niente stava andando come avrei pensato mi ha fatto completamente cambiare idea.
Ma andiamo per gradi.
Julia scappa dal marito perché lo ritiene responsabile della dipartita della piccola Kate. Fin dalle prime pagine, però, frasi accennate e indizi appena mostrati ci convincono che la colpa sia in realtà attribuibile alla madre.
E io, dall'alto della mia somma ignoranza e della mia incapacità di aspettare di finire un libro prima di giudicarlo, pensavo: 'Ma perché me lo dici ora?'

E CERTO che me lo diceva subito, perché l'oblio che ha colpito la nostra protagonista è solo il primo sintomo di un disagio che crescerà in modo esponenziale fin dalle prime pagine del romanzo. E perché la morte della figlia non ha alcuna rilevanza ai fini della trama, se non l'essere il motivo scatenante della sua fuga.

Questo perché, ad un certo punto, arrivano i fantasmi.
O meglio, arriva IL fantasma.
Che si palesa nei modi più convenzionali possibili: apparizioni allo specchio, rumori improvvisi, stanze caldissime, acqua del rubinetto disgustosa (vi dice niente Casper?). . .
Julia, in preda al dolore, si convince che sia la figlia.
Non ci vorrà molto a comprendere che ci troviamo di fronte ad un doppelganger perfetto che andrebbe incorniciato.

Quello che poi è ancora più affascinante è che le medesime apparizioni potrebbero essere tranquillamente da parte di umani: Magnus sta controllando a vista la moglie, entra in casa e volutamente lascia disordine e fa rumore per spaventarla.
Lei ne è consapevole, ma abbiamo tra le mani una donna di una fragilità estrema: pur sapendo a chi attribuire il vaso di fiori distrutto, è convintissima della presenza di un fantasma. Dimentica di lavarsi, di mangiare, la sua stessa salute passa in secondo piano rispetto alla necessità di scoprire cosa sia successo in quella casa e perché quel fantasma ce l'abbia proprio con lei.

Oltre all'interessante questione dell'entità e della precedente proprietaria, a farmi capire quanto svagliavo a sottovalutare il povero Peter sono stati i personaggi secondari.
Una medium terrorizzata, per esempio. Che pare una baggianata, ma è fin troppo facile ritrarle come donne esperte che ne hanno viste di ogni e ormai non hanno paura di niente.
Un marito potente, con una personalità dominatrice, ma anch'esso pieno di sofferenza e che, nel momento adeguato, riesce a convincersi che qualcosa di sovrannaturale ci sia davvero.
Mark, il cognato, che si rivela completamente diverso da quanto credevamo, e infine Lily, uno dei motivi per cui questo libro è così grande. Lei e il suo essere così viscida, una donna subdola e opportunista, legata in modo morboso e quasi lannisteriano al fratello Magnus.


Una discesa nemmeno troppo lenta verso l'inferno personale di Julia, in cui siamo trascinati insieme a lei, in modo apparentemente semplice e che in realtà si rivela efficace e coinvolgente.
Scusa, Peter, se ti ho sottovalutato.

martedì 16 giugno 2015

Non solo horror: Prisoners

11:32
(2013, Denis Villeneuve)

Il giorno del Ringraziamento le figlie minori delle famiglie Dover e Birch spariscono. Accusato del rapimento è il giovane Alex, un ragazzo che soffre di un discreto ritardo. Viene presto rilasciato per mancanza di prove a suo carico, ma Keller Dover, il padre di una delle due piccole, è talmente convinto del suo coinvolgimento da decidere di rapirlo e torturarlo per fargli confessare il luogo in cui si trovano le bambine.

Io vi odio, quando indugiate sul dolore.
Quando girate quelle scene volutamente strappalacrime, magari anche con la splendida e malinconica musichetta sotto.
Vi detesto.
Mi pare di guardare Studio Aperto, e a me Studio Aperto causa frequenti conati di vomito e rush cutanei.



Prisoners, invece, non lo fa.
Esplora quantità di dolore quasi impossibili da narrare, ma mai che lo faccia con autocompiacimento, con voyeurismo, con volutissima voglia di strapparvi quelle lacrime di dosso.
Prisoners in due ore e mezza tocca punte di sofferenza atroci, e ce le mostra con una freddezza, un grigiore e un cinismo che sono quasi allarmanti.
Perché il regista non ci vuole in lacrime, ci vuole attenti.
E questo siamo.
Concentratissimi, lo sguardo immobile, la mente aperta sulle diverse vicende.

La sensazione che ne ho avuto è che il rapimento delle bambine e la conseguente indagine non fossero altro che un pretesto (ottimamente costruito, eh) per prendere in analisi il modo in cui due famiglie affrontano l'uragano di stress, dolore, e angoscia che le ha investite.
Da un lato la famiglia Birch è dignitosissima, soffre in un composto silenzio, rotto solo dallo sfogo della figlia maggiore.
La famiglia Devon, invece, crolla. La madre si affloscia su se stessa, è costretta a ricorrere a farmaci per riuscire a sopravvivere, a dormire. Il padre si trasforma in carnefice, la rabbia e il dolore gli annebbiano il senso dell'etica, ritrovare sua filia conta più di ogni altra cosa, anche di fronte all'evidente disturbo di Alex. Solo il figlio maggiore dimostra un'incredibile maturità, aiutando il padre e sostenendo la madre.
Altrettanto articolato è Loki, il detective che si occupa del caso, con il suo tic all'occhio, il suo atteggiamento duro e inflessibile, i suoi tatuaggi.


Ognuno di questi personaggi (tutti splendidamente interpretati, ma Gyllenhal è una BOMBA) si muove in questo impietoso panorama di provincia, così grigio e piovoso che pare una manifestazione dei cuori spaccati dal dolore.
Non si capisce chi sia il vero prigionero, qui, se le bambine prese in ostaggio o le famiglie imprigionate dalla sofferenza.

Un gran, gran film, in cui non esistono buoni o cattivi, ma umani ripresi in tutte le loro sfaccettature. Così, finalmente, la vittima non è solo il pover'uomo buono come un tocco di pane, ma anche l'uomo fortissimo, determinato, anche crudele. E il carnefice non è solo il folle, la persona detestabile e immotivata. Può anche essere una persona la cui mente è completamente annullata, anch'essa, dal dolore.
E tutto questo, insieme, non ti fa togliere gli occhi dallo schermo.
Per due ore e mezza che scorrono veloci come una.


(Ma l'attore che fa Alex non è ugualeuguale al moroso di Joan of Arcadia?)

sabato 9 maggio 2015

Two sisters

14:00
(2003, Ji-woon Kim)

Continuiamo con i recuperi da Liebster.
Stavolta seguo il consiglio di Manuela, autrice del blog Il Cinemanu, che proprio in questo periodo è in procinto di sfornarci non un bel post ma una bimbina, che sono certa sarà più bella di qualsiasi post si possa mai scrivere.
Ne approfitto quindi per farle di nuovo i miei più sinceri auguri e per mandare un abbraccio ad entrambe!

Detto ciò (perdonerete il mio debole per i neonati), passiamo al film. Lo puntavo a distanza da un po', soprattutto per le recensioni così diverse che si trovano a riguardo. C'è chi lo consiglia e chi gli butterebbe le noccioline addosso. (Vincenzo palesati e non vergognarti dei tuoi intenti violenti verso le pellicole orientali)


Soo-yeon e Soo-mi sono due sorelle costrette a vivere con il padre e la matrigna.
Come da tradizione, la matrigna è una bella donna ma odiosa, odiosa, odiosa.
Oltretutto in casa ci sta pure un fantasma, perché come al solito i problemi arrivano tutti insieme.

Nella guerra civile sulle opinioni riguardo a Two sisters dichiaro la mia appartenenza alla fazione 'noccioline contro lo schermo'.
Il che mi da un fastidio esagerato dal momento che avevo riposto in questo titolo tutte le mie speranze circa lo splendore del futuro.

Sia chiaro: non è affatto male.
La vicenda di partenza è interessante e ancora più intrigante è la risoluzione della questione.
PERO'.
Se punto un titolo per mesi e ne rimando la visione solo per potermela godere in piena gioia, se creo tutto un setting strano in casa, con le porte chiuse ma non del tutto, le luci spente, le tapparelle abbassate, non mi porto nemmeno le patatine e soprattutto USO LE AURICOLARI, può bastarmi un 'non è affatto male'?
Non può.


Volevo il terrore, volevo avere paura di andare a fare la pipì da sola, volevo addormentarmi inquieta, volevo sobbalzare ad ogni movimento sospetto delle mie porte lasciate APPOSITAMENTE socchiuse.
Invece no.
La porta si apriva e io pensavo: 'Ancora Simone (il gatto, n.d.A.) va su e giù?'

Per la seconda volta di fila mi sono trovata di fronte ad un film molto curato e gradevole dal punto di vista estetico, altro merito che siamo al sior regista perché è giusto.
Eppure mi è mancato qualcosa: nonostante i tentativi di inquietare siano ben presenti e qualcuno sia anche funzionale, non è mai sufficiente.

Non so bene se attribuire la mia delusione ad un reale fallimento del film o se a fallire siano state solo le mie aspettative, ma speravo sinceramente di farmela nei pantaloni, è da tanto che un film non mi spaventa davvero e sto iniziando ad annoiarmi.

Se continuo a non trovarne guardate che passo alle commedie romantiche, eh.



giovedì 5 marzo 2015

1921: Il mistero di Rookford

13:52
(2011, Nick Murphy)

Ancora presentissimo il problema con la punteggiatura, spero di venirne a capo.

RICETTA PER FARE UN FILM CHE POTREBBE PIACERE ALLA MARI.

INGREDIENTI.
Fantasmi, fondamentali per la buona riuscita.
Un grande, bellissimo, edificio sperduto nel nulla. Possibilmente un edificio che ospiti orfanotrofi o manicomi.
Persone tormentate. La causa del tormento e' a libera scelta, costituiranno titolo preferenziale le sofferenze da lutto, il cinismo congenito e la presenza di eventuali poteri soprannaturali, oppure le capacita' sensitive.
Il GRIGIO. Tanto, tanto, grigio. Ci piace il grigio.
L'ambientazione in Gran Bretagna puo' aiutare per la buona riuscita. Mi calma, mi sento rilassata solo se ci penso, e mi trasformo in un personaggio della Austen.
Qualche jumpscare. Non troppi, che il troppo stroppia e poi non e' piu' jump, ne' scare. Solo qualcuno qua e la', per tenermi alta la voglia e la tensione.
Attori capaci. (Preferibilmente che non abbiano presenziato in alcun film di Harry Potter, grazie. Mi arreca parecchio disturbo.)
Una regia che non mi faccia sbadigliare, per il resto tecnicamente fate quello che vi pare, tanto io ci capisco ancora troppo poco.
Un FINALE degno. Guardate che ci vuole un attimo a rovinare tutto il vostro lavoro se lo fate finire nel fosso.


PROCEDIMENTO.
Buttate tutto nel robot da cucina. E' l'unico modo di cucinare che conosco, scusate.

Quello che sfornerete sara' la storia di Florence, cinica autrice di libri sui fantasmi e boicottatrice ufficiale delle riunioni di medium fasulli. Lei nei fantasmi non crede. Per questo, quando le chiederanno di indagare su una presenza che disturba un collegio, lei non sprizza proprio gioia da tutti i pori. Ma tant'e', parte comunque. E sara' costretta a rivedere le sue certezze.


Splendidi abiti (ho una passione incredibile per il periodo fine Ottocento inizio Novecento, datemi una gonna lunga e io sono a posto), musica cosi' calmante, colori molto tenui. L'effetto e' quello di una camomilla bollente, e io la camomilla bollente la adoro.
Quindi si', mi e' piaciuto anche il film. Non tantissimo, non e' una di quelle pellicole che mi hanno rapito il cuore e tutto quanto, ma mi e' piaciuto.
Avrebbe potuto giocare molto di piu' su certi elementi e vincere facile con la commozione obbligatoria, ma cosi' non e' stato, cosa che per me gli fa guadagnare millemila punti. Invece resta sempre equilibrato nel raccontarci una storia si' gia' vista e rivista poi vista di nuovo, ma narrata in modo cosi' pacato e delicato che rimane un piacere per la vista.


Ma NO.
La Umbridge NO.

martedì 15 luglio 2014

Non solo horror: Il mio vicino Totoro

17:11

Cara Mari 45enne, ciao.
Sono io.
Cioè, sei tu, a 23 anni.
Spero tu sia bene, che tu abbia un lavoro che ti soddisfa, una casa col soppalco e che ti sia finalmente comprata un pastore bovaro.
Ricordati che volevi chiamarlo Efesto o Ezechiele.
Mi auguro che il cinema sia ancora la tua passione, la tua terapia, e che tu nel trambusto di una vita da adulto sappia trovare il tempo per guardare un film.
E spero che tu abbia finalmente comprato quell'aggeggio per tenere il PC sulle cosce senza ustionartele ogni volta.
Ti scrivo perché ieri sera ho visto un film che mi ha fatto pensare che forse dovevo lasciarti dei promemoria per il futuro.
Era uno di quei film che mi aveva passato R, quelli dello Studio Ghibli. La promessa che faccio alla Mari ventitreenne è di vederli tutti.
Te lo ricordi, R, sì?
Beh, il film era la storia di due sorelline che andavano a vivere col Papà in una casa nuova per stare più vicini alla mamma ricoverata in ospedale.
Detto cosi non è niente di speciale, ma nella sua disarmante semplicità mi ha fatto pensare che dovevo darti dei suggerimenti per il futuro, nel caso tu ti dimenticassi la bellezza del disincanto.
Quello che desidero per te è che in ogni tua giornata tu cerchi un sorriso come quello che avevo io ieri sera a visione conclusa, il sorriso di chi sa che sta guardando qualcosa di imperfetto ma talmente dolce che chissenefrega.
Voglio che quando salirai sull'autobus e sarai nervosa perché sarà pieno, in ritardo e puzzolente, ti calmerai pensando al gattobus, e a quanto doveva essere comodo.
Voglio che quando dovrai affrontare qualcosa che ti spaventerà tu imiti le due sorelline, cacciando un urlo e sfoderando il più buffo dei sorrisi coraggiosi, perché se ha funzionato con i nerini del buio io non so proprio con cosa potrebbe fallire.
Mi auguro che tu sia mamma e che ti ricordi di questo papà che le circostanze hanno messo in una posizione scomoda ma che si diverte un mondo con le sue piccole e che gioca con loro, perché non esiste modo migliore di trascorrere il tempo insieme.
Voglio che ti ricordi che i gesti gentili non costano niente, come prestare un ombrello a chi ne è privo quando piove, perché non si sa mai, potrebbe uscirne una delle scene più divertenti del mondo.
Voglio che tu ti informi se la proporzione uomo/albero di canfora è davvero quella e, se cosi fosse, che tu CORRA a cercarne uno.
Desidero che tu vada in Giappone ad indagare su come fanno a mettere la magia in disegni cosi belli e semplici.
Ma più di tutto, Mari, per piacere, gira il mondo e cerca un Totoro.
Non avrò pace finché non ne avremo uno tutto nostro.

martedì 8 luglio 2014

A l'interieur

15:29
(2007, Alexandre Bustillo e Julien Maury)





Ci sono tante belle cose che si possono fare invece di vedere un film.
Se siete incinte, o avete intenzione di esserlo a breve, per esempio, io questo film lo eviterei per lasciar spazio nel cervello allo studio dell'uso del Chupa Chups nelle civiltà precolombiane.

Questo perchè A l'interieur è CATTIVO CATTIVO CATTIVO.
CATTIVO.
CATTIVO.
BRUTTO E CATTIVO.

No, brutto no, affatto.
Ma Bruttoecattivo tutto attaccato sì.

La signora che vedete nella miniatura del video qui sopra si chiama Sarah. Mentre aspetta il suo primo figlio ha un brutto incidente in macchina, in cui lei e il piccolo che porta in grembo restano illesi. Muore invece il papà del bambino.
Qualche mese dopo, precisamente la sera prima del giorno previsto per il parto, una strana donna suona il campanello di casa di Sarah, e quello che vuole non è solo fare una telefonata.

Toccare le donne incinte è pericolosissimo, un tema che va trattato con pinze dorate e guanti d'argento.
I due registi francesi lo trattano con un paio di forbici insanguinate e un casino di sadismo.
Ma ce la fanno, funziona.
Portano a casa un filmone di quelli difficili da dimenticare.

Devo riconoscere che Sarah non è un personaggio per cui sono impazzita da subito. All'inizio la vediamo soffrire molto una perdita terribile, e poco altro ci è mostrato di lei, a parte che ha una madre degenere e cretina che dopo che la figlia ha perso il compagno da soli 4 mesi le chiede se si fa il capo. Ma insomma, a parte ciò, poco altro vediamo.
Forse è voluto, perchè nel film quello che ci interessa non è tanto Sarah nella sua complessità di donna e blablabla, ma Sarah-mamma che tira fuori un bel paio di coglioncini quando l'incolumità del figlio è messa a repentaglio. Potrebbe anche essere una donna con poca personalità, ma in questo contesto non ce ne frega assolutamente niente. E' una donna che prende a pugni lo specchio per farci uno spuntone con cui colpire l'altra donna, l'assalitrice, ovvero il personaggio che da solo avrebbe potuto reggere il film.

Di lei, la cattivona, non sappiamo niente. Non ha nemmeno un nome. Eppure è terrificante.
Arriva di soppiatto, guarda dalle finestre, poi sparisce, poi spunta dietro di te, e una volta entrata in casa è impossibile fermarla dall'ottenere quello che vuole.
Personaggione di quelli potentissimi, di cui vediamo chiaramente il volto per la prima volta solo illuminato dal fuoco della sigaretta (in una scena gigantissima, spettacolare, me la sono fatta sotto).
Questa squinzia qui fa una paura maledetta, perché è un pazza isterica.
Davvero, non per dire.
Non ha organizzato un piano preciso per andare a prendersi da Sarah quello che vuole, ha alzato le chiappe ed è andata a prenderselo. Guidata solo dai sentimenti è entrata in casa e l'ha presa a forbiciate e si è pure lasciata andare a sfoghi isterici da donna con la stizza premestruo quando non ci è riuscita.
Il che la rende molto più pericolosa.

Giocano un po' a guardie e ladri in giro per la casa, perlopiù in bagno, c'è tanto di quel sangue da cominciare a fare un po' di impressione anche a me che di solito resto quasi indifferente, ci sono un bel po' di morti, ma fino alla fine ci sono loro due a sfidarsi, entrambe decise a non cedere, guidate da quello che dovrebbe essere il migliore dei sentimenti, il più forte.

Unica pecca sono state secondo me le scene del feto che non ho capito che effetto volessero dare, che sensazione volessero dare allo spettatore.
Se lo scopo era farci dire 'Oh mioddio no povero bimbo' credo abbiamo proprio sbagliato film e pubblico.
Se non è questo, non capisco quale possa essere.

A parte questa piccolezza, film incredibile, con due attrici da applausi e inchini.

Poi però si arriva alla fine.
LO SO che non poteva che finire così e che qui non stiamo guardando l'ultimo film di Barbie.
Però con quella scena finale, miei simpatici amici francesi, vi siete appena digievoluti da Bruttiecattivi a MALEDETTI BASTARDI SCHIFOSI.

Fate dei gran bei film, però.
Cià.

lunedì 30 giugno 2014

Daisy vuole solo giocare

14:34
(2008, Aisling Walsh)


RECENSIONE PIENA DI SPOILER MA LEGGETE PURE, TANTO IL FILM FA SCHIFO COMUNQUE.

State guardando un film.
Lo annusate da subito che non sarà un filmone, ma insomma, ve lo godete con tranquillità, sperando che migliori.
Poi arriva una scena.
Una scena, magari corta e che potrebbe apparire poco importante, ma che ti fa capire in pochi minuti che quello che stai vedendo altro non è che un grandioso, esemplare, FILM DI CACCA.

Stavolta parliamo di Daisy, bimbetta dal nome bellissimo che uccide le persone.
Non è che le uccide direttamente, è che le persone intorno a lei, semplicemente, muoiono.
Tutti allarmati, tutti preoccupati, e tu pensi 'oddio la figlia di Satana, oddio è posseduta'.
Ma no, amici ascoltatori, Daisy è una figlia delle FATE.
Per quale razza di benedetto motivo una FATA dovrebbe volermi morta?
Anni di fate viste dai bambini come belle creaturine gioiose e qua mi sconvolgono tutto così.
PERCHE'?


Ma torniamo alla scena di cui parlavo prima.
Insomma, sta Daisy è strana, bene non sta. La sua mamma adottiva però non la crede così bizzarra, e la difende dalle accuse di tutti, compreso da quelle del papà adottivo che non ha proprio le fette di salame sugli occhi.
Papà intuisce che la bimba è la causa dei problemi, mamma non ci crede, papà e mamma litigano. So far so good.
Fino a che mamma conosce una tipa.
Chi è?
La morosa del liceo di papà.
Mamma torna a casa e fa una piccola scenata di gelosia a papà.
Papà consola mamma.
Cosa mi significa una scena simile?
Cosa mi porti di significativo nel contesto?
Niente.
Ah, no, mi conduci dritto ad un'altra scena, che arriva dopo un po', in cui papà si sente trascurato dalla mamma e allora esce con la morosa del liceo e la bacia.
Ah no, lei si tira indietro, che è una donna onesta.

Lo capite?
Capite di cosa parliamo?
Parliamo di un film in cui vengono inserite scene ad cazzum tanto per arrivare a quell'ora striminzita e mezza che comunque non comunica nulla, non parla di nulla, e si conclude con un primo piano della bimba fata che vorrebbe essere inquietante ma che alla fine fa tirare un sospiro di sollievo perchè almeno il film è finito.


Ah, e questi primi piani della piccoletta sembrano essere una specie di firma stilistica del regista, dato che ogni dieci minuti circa ce ne scappa uno.
Ma non fanno paura.
Nemmeno gli scappa per sbaglio, di fare paura.

Che poi, parliamo seriamente un attimo.
Ho letto su wiki che la questione dei bambini Changeling è una leggenda reale, con una storia e blablabla.
Quindi poteva essere interessante trarne un film, in fondo apprezzo anche il tentativo di fare qualcosa di diverso dal solito, apprezzo che si tocchi un tema nuovo, tutto quello che volete.
Ma se per farlo dovete girare un film con i piedi allora no, non ci sto.
Che dei bambini fata non sentiva la mancanza nessuno.
Quindi, o fai un buon lavoro, o lasci perdere e investi i tuoi soldi per aprire un'azienda che venda cuscini per anatre, che ne so.

Una cosa positiva c'è, in Daisy vuole solo giocare: il vicino di casa che sembra Gazza.
O è Gazza.
Non ne sono sicura, il film non ha una pagina wiki per andare a verificare se è lui, ed è un film troppo brutto per andare a cercare la scheda sull'IMDB.
Ditemelo voi, se lo sapete.
E' Gazza quello lì?





martedì 22 aprile 2014

Eden Lake

16:10
(2008, James Watkins)


Un giorno come un altro uscite dal lavoro, trovate una macchina ad aspettarvi, salite e c'è MICHAEL FASSBENDER.
Niente, la giornata assume una piega diversa.
Come se la sua presenza non fosse sufficiente accade che MICHAEL FASSBENDER vi dice: 'Andiamo in campeggio?'
E voi tutte così:


Ma ricominciate a respirare, perché quelle che andranno in campeggio con MICHAEL FASSBENDER non siete voi.
Manco io.
E' una tipa bellissima di nome Kelly Reilly.

Insomma, Kelly e MICHAEL FASSBENDER vanno in campeggio insieme. Tutto bello, tutto paradisiaco, se non fosse che un gruppetto di ragazzini comincia a infastidirli, fino a trasformare questo weekend romantico in un incubo.

E no, il fatto che questo post abbia un incipit così cretino non è affatto casuale.
Sto cercando di sdrammatizzare, perché ad un giorno dalla visione tutte le sensazioni negative che Eden Lake mi ha trasmesso sono ancora lì.


Watkins mi ha fatta arrabbiare, anzi mi ha proprio resa rabbiosa, sbattendomi in faccia il totale nonsense di alcune azioni umane. Di tutto quello che vediamo non esiste un perché. Ed è questo a rendere la vicenda, che di per sè non ha niente di nuovo o eccezionale, un incubo.
Gli aguzzini ci vengono mostrati da subito, non sono altro che ragazzetti, più o meno dell'età di mio fratello, preadolescenti. Se ne stanno lì a bighellonare, importunano un altro ragazzetto timidino, niente di eclatante.
Non sono ragazzini demoniaci, fantasmi, mostri.
Sono solo ragazzini.
Questo è un elemento destabilizzante, tanto quanto in Them, ma senza l'elemento sorpresa finale. Non c'è niente di sorprendente, loro sono lì fin dal principio, quello che è surreale è quanto noi restiamo di sasso nel vedere quanto si spingono in là.

Se in Them alla fine mi sentivo il freddo dentro, alla fine di Eden Lake ho sentito solo una calda, caldissima rabbia.
Siamo in un bosco apparentemente senza fine, sempre di giorno (c'è solo qualche scena finale di sera, ma ormai il grosso era fatto). Eppure, anche senza il grande aiuto del buio ci sentiamo opprimere, siamo all'aperto ma la pressione è tale che sembra manchi l'aria alla gola.
Loro sono ovunque, non puoi nasconderti, non puoi scappare a lungo.
Ma soprattutto sono disposti a tutto.
E gli equilibri di questo gruppetto di microcefali sono così netti che sembra di stare leggendo uno studio antropologico anzichè stare guardando un film horror. Tutti sono sottomessi alla figura carismatica e sicura di sè di Brett, il piccolo boss, tutti desiderosi di soddisfarlo e incapaci di contraddirlo. Figura leader che si manifesta per quello che realmente è (un vero mostro) nella scena, a mio parere una delle più tremende, in cui massacra di botte uno dei suoi stessi amici.
Niente ha più importanza, è solo una folle esplosione di violenza fine a se stessa, in uno scoppio di rabbia furiosa che ha il potere di surriscaldare anche lo spettatore.
Una scena terrificante davvero.


Tanto quanto sono interessanti le interazioni tra i giovani, altrettanto interessanti sono i due personaggi adulti, che in una sola ora e mezza scarsa si evolvono al punto da scambiarsi i ruoli.
Apparentemente forte e sicuro di sè lui, apparentemente timida e dolce lei, a metà visione li troviamo uno mezzo morto e l'altra sporca, stanca e sudata, ma aggressiva e determinata a non lasciarci le penne.
L'istinto di sopravvivenza la riempie di una grinta che non è mai assurda o insensata. Non passiamo da Pollyanna a Wonder Woman, badate bene. Lei rimane la stessa donna di sempre (come si vede nel momento di senso di colpa che ha quando uccide il ragazzino sbagliato), ma vuole vivere e se qualcosa si mette in mezzo tra lei e la sopravvivenza allora lei elimina quel qualcosa. Punto.
Anche se quel qualcosa avesse le sembianze di una bambina.

Per il post numero 100 di MRR non potevo trovare film migliore. Uno dei più intensi visti ultimamente, uno di quelli che imprimono la loro forma nel cuore prepotentemente, uno di quelli per cui la parola capolavoro non è usata a sproposito.

PS. Posso garantire ancora per un po' per mio fratello, coetaneo dei bulletti. E' un po' cretino, ma la gente non la ammazza.
Credo.

mercoledì 12 marzo 2014

Come out and play

14:25
(2012, Makinov)

HO SBAGLIATO FILM.
Ma si può?
Volevo vedere The Children, ma non mi ricordavo il titolo.
Come si fa a dimenticarsi un titolo scontato come The Children?
Niente, ho visto questo, allora vi parlo di questo.

Una coppia in vacanza decide di fare una scampagnata su un'isola. Arrivati sul posto si accorgono che l'isola sembra abbandonata da chiunque abbia più di 12 anni, non ci sono tracce di adulti, ma di bambini pullula. Chissà come mai?

La premessa sul regista stavolta è obbligata. Il signore in questione si chiama Makinov. No, non davvero, è un nome d'arte. Comunque, questo bizzarro personaggio gira SEMPRE (agli eventi pubblici almeno, spero che non si conci così anche per andare al gabinetto) con un cappuccio in testa. Il che mi fa pensare a The Orphanage e allora piango un po'. Ha un account Youtube dal nick che lo proclama a nostroeternosignore e ha girato un video in cui espone il suo pensiero. Guardate tutti ammirati.


Tutto sto personaggio per girare cosa?
Un remake.
Ma non un remake normale, no no, praticamente la copia sputata ripresa per ripresa di un film con la piccola fama del cult come Ma come si può uccidere un bambino?
Tipo Quarantena con Rec, per intenderci.
E se vi è scappato il va a cagare, non siete soli.

Appurato che per motivi ovvi non poteva uscirgli male, bisogna riconoscere che nemmeno gli è uscito benissimissimo, rendendone difficilissima qualsivoglia recensione.
Quanto piacciono a me i superlativi assoluti, a nessuno.
La vicenda ha inizio con Francis, che a scanso di equivoci è l'uomo della coppia, che cerca in un bar  una barca a noleggio per allontanare la moglie incinta dal luogo un po' troppo caotico in cui sono in vacanza. Lo fa con un'espressione talmente strana che per tutto il tempo della scena ho pensato che fosse uno di quei film in cui all'inizio mostrano la fine e lui, traumatizzato, cercasse una barca per fuggire. E invece no, quindi temo fosse vittima di coliche renali.


I due arrivano sull'isola, la trovano deserta fatta eccezione per i bambini e non sembrano affatto preoccupati. Anzi, prendono da bere e da mangiare aggratis (ok, questo l'avrei fatto pure io), fanno foto, vanno all'hotel e blablabla. Poi vedono una bambina far fuori un nonno e non gli passa manco per l'anticamera del cervello che non sia una coincidenza.
Eppure non mi sembrava ci fosse bisogno di Adam Kadmon per svelare il mistero.

Il problema grosso grosso è che non succede proprio niente. Fuga, pausa, fuga, pausa, fuga, un morto o due, un morto inaspettato, fuga, fine. Certo la trama non è il punto forte del film. E nemmeno l'azione, ecco.
Mi dispiace soprattutto perché ci sono vari aspetti del film che potevano essere davvero interessanti e invece sono buttati lì in modo pressapochista. Per esempio il rapporto di coppia. Se incentri tutto il film su due personaggi soli hai la possibilità di approfondire, di perlustrare, di rendere intrigante, invece sono buttati lì, sulla pellicola, a scappare dai bambini malefici. Peccato.
Ecco, a parte il momento in cui lui, Francis, lascia DA SOLA la moglie INCINTA DI 7 MESI a fare la guardia all'hotel con in giro dei KILLER.
Vile!


Ammettiamo però che certe positività ci sono. La violenza non è mai (o quasi) mostrata platealmente, è solo lasciata supporre, come piace a me. Il tutto è ambientato di giorno, quindi non ci sono giochi di luci ed ombre, ma solo musicali, che tutto sommato sono buoni. E poi va beh, ogni film con i bambini cattivi si presta a varie riflessioni, uccidere, non uccidere, sono solo bambini, ok ma anvedi tu che bambini infami, cose così. Non è un merito di questo film in esclusiva, ma è bene ricordarlo.

Insomma, dopo questa visione Makinov mi sembra solo un gran montato, soprattutto dopo aver visto l'uscita del suo nome a caratteri cubitali e ben scanditi nei titoli di coda.
Evitatelo pure, poi magari qualche giorno ci spariamo tutti insieme l'originale.

lunedì 10 febbraio 2014

Non solo horror: Little miss sunshine

10:36
(2006, Jonathan Dayton e Valerie Faris)



Non amo le commedie, e credo che ormai sia cosa nota per chi bazzica abitualmente per questa cameretta. Soprattutto non amo le commedie che cercano a tutti i costi di strapparti risate sguaiate. Preferisco di GRAN lunga quelle commedie che ti regalano sorrisi sinceri, a volte dolceamari, ma accompagnati da quel senso di tenerezza che ti regalano solo i bei film.
E Little miss sunshine è poco ma sicuro uno di quelli.

Olive ha sette anni ed è arrivata finalista al concorso di Piccola Miss California. Parte quindi a bordo di un furgoncino Volkswagen di quelli anni 60 con la mamma, il papà coach motivazionale di scarso successo, il fratello che si rifiuta di parlare da 9 mesi, il nonno eroinomane un po' fissato col sesso e lo zio gay appena sopravvissuto ad un tentato suicidio.


Già la presentazione vi fa sorridere, vero? Ma come convivono, simili esemplari umani? Litigando, discutendo, scendendo a compromessi ('Dwayne, se vieni ti prometto che ti faccio iscrivere all'Aeronautica!'), parlandosi sopra, facendo un gran casino. Ma quanto sono reali, nel loro essere volutamente esagerati.

La famiglia parte, e in 700 miglia accadono tutti i possibili disastri di un road trip. E il furgone che non parte, e il nonno in ospedale, e i ritardi, e la strada, tutte. Ma non sono tanto i problemi a suscitare il divertimento, quanto il modo della famiglia di reagire. Il cinismo del nonno, la pazienza della mamma, il silenzio tombale del fratello, tutte caratteristiche a cui nel corso della pellicola ci si affeziona.

E in tutto ciò la piccola Olive conserva la sua totale ingenuità, il suo amare tutti incondizionatamente alla stessa maniera, anche un padre del genere (dopo due minuti l'avrei preso a schiaffi) lei lo abbraccia. Rende il nonno scontroso con tutti dolce solo con lei, riporta con i piedi per terra il fratello in piena crisi isterica. E la piccola Abigail Breslin ha un'aria tenerissima con quegli occhialoni.


Tutto questo buonismo apparente in realtà però non c'è, perché insieme ai sorrisi, Little miss sunshine regala anche scene abbastanza drammatiche (rese comunque con quell'atmosfera leggera che contraddistingue il tutto) e tematiche di una certa rilevanza, dal suicidio, all'omosessualità, alla rivalità personale e lavorativa, quasi tutte incarnate in uno Steve Carell a cui non avrei dato un euro E INVECE, passando addirittura per la morte e per lo spettacolo impietoso dei concorsi di bellezza per bambine.

Si arriva ad un delirante finale, in una scena di gruppo memorabile, in pieno Sundance style, che ridà unità e divertimento ad una famiglia che ha passato un'oretta abbondante di film a litigare. E a quella che se vogliamo può essere anche la 'morale' del film.
La salvaguardia del diritto ad essere sfigati.


martedì 3 dicembre 2013

Them - Loro sono là fuori

14:43
(2006, David Moreau e Xavier Palud)



Quante volte ci siamo svegliati di notte dopo aver sentito un rumore?
Soprattutto dopo aver visto un film, magari, di quelli coi mostroni brutti e cattivi.
Ci alziamo, ci guardiamo intorno, controlliamo che non ci sia niente e poi torniamo nel calduccio del letto.
E se invece qualcosa ci fosse davvero?

Clementine e Lucas si sono appena trasferiti in Romania, in un'isolata casa di campagna. Una notte Clementine si sveglia a causa di un rumore, e ben presto i due si accorgeranno di essere stati messi sotto assedio. Da chi non si sa. Ma soprattutto non si sa perché.

Mentre scrivo questo post, appena terminata le visione, mi sento ghiacciata.
Ok che siamo al 3 di dicembre e caldo non fa, ma questo film è RAGGELANTE.
Non sappiamo niente. Non vediamo niente.
L'assedio inizia quasi subito, ci è concesso solo un minimo di introduzione tanto per farci ambientare e mettere comodi.



L'arma che usano i registi è proprio quella dell'incognito.
E, maledetti loro, funziona.
Perché, devo riconoscerlo, il film fa paura. Non si sa mai cosa succede perchè non si capisce nulla. Non si sa perché accada tutto quello che vediamo sullo schermo, e questo per la mente è terribile.Come si può concepire una tale crudeltà sfogata su due persone SENZA ALCUN MOTIVO.
Faccio un esempio forte: Hitler aveva un problema con le persone di religione ebrea. Aldilà di tutto quello che si sa già, lui aveva una ragione. Una ragione di merda, ma una ragione. Non che questo giustifichi alcunchè, non fraintendetemi. Ma questo film, nel suo essere completamente immotivato, è di una cattiveria senza precedenti.

Così come si rivela crudele il finale.
Preparatevi perché questa visione vi insegnerà il significato della parola 'shock'. E, di nuovo, vi chiederete 'Perché?'.
E alla fine dell'ora e mezza di visione avrete una specie di risposta.
Che fa incazzare ancora più del non averla, una risposta.



Tutto ciò mi ha ricordato un po' Michael Myers, personificazione del Male immotivato.
E per quanto non assocerei mai nessuno a Carpenter, i due ometti francesi se la cavano alla grande, stillando una tensione costante, che non ha mai cedimenti nel corso della visione, seguendo i due fidanzati nella loro fuga disperata ma sempre mostrandoci il meno possibile.
E ormai è risaputo che meno mostri più fai paura.



Pare proprio, allora, che il tempo che i francesi risparmiano non facendosi il bidet lo usano per fare buoni film. Siccome però a rigor di logica una non esclude l'altra, vi prego di continuare a fare buoni horrorini ma anche di cominciare a farvi il bidet.



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