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giovedì 28 marzo 2024

2024 in trimestri: episodio 1

15:39
Non mi ripeterò con la consueta intro in cui dico che questo è il periodo più difficile della mia vita, ma vi rassicuro: continua ad essere così. Però sto imparando quanto velocemente il corpo umano e la mente si adattano a equilibri nuovi e mentre il mondo inizia a ballare io ballo con lui.
Questi primi tre mesi dell'anno nuovo si sono aperti però con poco tempo a disposizione, ed è finita che ho letto, guardato e ascoltato molto poco. In questo poco, però, ci sono state storie di grande valore e vale la pena raccontarvele.





Letture del trimestre

Poiché vi ho già parlato di Canne al vento di Grazia Deledda - indiscutibilmente la lettura migliore del trimestre, ve ne propongo altre tre, che ho trovato molto interessanti.
Il primo è così celebre che non devo certo presentarlo io. Si tratta infatti de Il grande mare dei Sargassi, che in poche pagine ci racconta la storia della moglie pazza nell'attico di Jane Eyre. È una lettura così breve che la berrete nel tempo di un aperitivo, ma così significativa da non lasciarvi più. È il racconto anticolonialista di una bambina strappata al mondo che conosceva e lanciata in quello viziato e borghese in cui si sono mossi gli uomini della sua vita: il marito della madre prima e il suo poi. Non solo riscrive la sorte di un personaggio ridisegnandone completamente l'aspetto e il trascorso, ma rimette in discussione tutte le donne che, come Antoinette, sono state nascoste, umiliate, cancellate. Magnifico, col profumo esotico della Giamaica che si trasforma in quello polveroso e umido di una casa data alle fiamme. Un racconto magnifico.
Ho poi ascoltato in audiolibro Yellowface, di RF Kuang. È la storia di una giovane e brillante autrice cinese americana che muore per un banale incidente a casa di una conoscente, scrittrice a sua volta, che pensa di farla franca rubando un manoscritto della defunta e spacciandolo come proprio. In un momento come il nostro in cui il dark academia è così di moda da diventare più un'estetica da sfoggiare sui social che non un genere letterario, Yellowface prende tutta l'academia per prendersene violentemente gioco. È un romanzo in cui il mondo dell'editoria ne esce infangato e ritratto come privo di morale e autenticità, in cui i social e il loro desiderio di verità sono il punto di svolta, in positivo o in negativo, di carriere intere. Il più pulito, qui dentro, ha la rogna, e il punto intero del romanzo è di raro cinismo: non c'è vendetta, non c'è giustizia, non c'è lealtà: il mondo fa schifo e il solo modo di sopravvivere è adattarsi a meccaniche che qualcuno ha imposto per noi. Oppure no, questa è la scusa che ci diciamo per giustificare la nostra mancanza di morale? Il romanzo ha una protagonista ripugnante che si muove in un mondo alla sua altezza e l'autrice ha, secondo me, giocato molto bene con queste acque sporche.
Il terzo, infine, è Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe, l'ennesimo romanzo di Grady Hendrix che passa da queste parti e che, tanto quanto gli altri, mi ha rubato il cuore. Come di consueto il suo autore ama parlare dei vari modi in cui l'umanità è prigioniera e questa, di umanità, è imprigionata in ruoli di genere duri a morire. Le casalinghe del titolo sono un gruppo di donne che si diletta a leggere libri sul true crime e che si troverà a doverne affrontare uno proprio nel perfetto e pulito quartiere in cui abitano con le loro famiglie perfette e pulite. Ha una deliziosa ambientazione anni '90, delle protagoniste simpatiche che si vogliono un gran bene anche se sono molto diverse e un gran desiderio di liberarle da questa vita in cui si sono trovate incastrate. Mi ha commosso molto.

Cinema

Ho guardato cos' poco horror in questo trimestre che mi sento distaccata da me stessa. Questo, però, non significa che non abbia visto delle belle cose di cui vale la pena parlare. Per esempio, il film del trimestre è indiscutibilmente La società della neve, così potente e appassionato e struggente. Che peccato averlo avuto solo su Netflix e non in sala, alcune sequenze meritavano una visione come si deve. Questo però non ha tolto intensità alla visione e mesi dopo la sua uscita, dopo che ne ho parlato in lungo e in largo su ogni social che abbia la mia faccia, ci penso ancora, a quei poveri sventurati, giovani e coraggiosi e forti come dei supereroi. Che visione magnifica. 
Per quanto banale, poi, è ovvio che i due film del trimestre siano Dune parte 2 e Povere creature!.
Non mi dilungherò su nessuno dei due: il film di Lanthimos ha un post dedicato mentre quello di Villeneuve è stato esattamente quello che desideravamo fosse: immenso. Così immenso che mi ha fatto venire voglia di riprendere in mano la saga o almeno il secondo volume. È proprio cinema della meraviglia, dello sbalordimento, delle mani davanti alla bocca, della magia. Quello che nonostante la mia età e la mia pigrizia mi porta ancora in sala a stupirmi dell'incanto della settima arte.
Dei pochissimi horror dell'anno che ho visto finora, però, il più adorabile è stato senza dubbio quella caramellina di Lisa Frankenstein: lezioso, divertente, sfacciato, barocco. Una comedy di quelle che il grande pubblico rivaluterà tra qualche anno ma che qui, nel frattempo, rivedremo in ogni serata grigia per riportare contentezza. Una storia gotica scanzonata e accattivante, con due protagonisti in forma smagliante e uno splendido esordio per Zelda Williams.

Podcast

In questi mesi ho ascoltato i miei appuntamenti consueti con il mondo del podcast e ho avuto un solo nuovo ingresso: Metanolo, consigliatomi da un'amica. È la ricostruzione della strage del vino al metanolo che ha colpito l'Italia negli anni '80, raccontata con un tono che si mantiene in linea di massima giornalistico con qualche picco melò che abitualmente non amo ma che qui non stona data la gravità della vicenda narrata. Cautela: ci si arrabbia parecchio. Ma parecchio.

Videogiochi

Dall'inizio dell'anno in live ho giocato a 4 videogiochi e devo ammettere che non è stato il periodo più felice in quanto a scelte videoludiche: Little Hope e The suicide of Rachel Foster hanno due caratteristiche in comune che me li hanno resi un po' indigesti. Entrambi, infatti, hanno avuto qualche piccolo problema di scrittura, o di "disordine" narrativo o di mancato approfondimento. Alcune rivelazioni, infatti, mi sono state fatte prima che il mio personaggio ci arrivasse giocando, altre ancora non sono mai arrivate. In Rachel Foster si sarebbero potute approfondire innumerevoli questioni che avrebbero reso l'avventura ancora più interessante e spaventosa, in Little Hope l'ordine di comparsa dei flashback è, come dire, "creativo". Entrambi, poi, hanno avuto una durata imperdonabile per il costo sostenuto.
Il problema contrario è di The Cosmic Wheel Sisterhood, che sebbene abbia un'estetica magnifica (in particolare il design dei personaggi è unico, bellissimo) si dilunga eccessivamente e ha una dinamica che alla lunga diventa un po' meccanica. Sarebbe interessante però vederlo giocare da qualcuno esperto di tarocchi per capire quanto sia fedele alla pratica. 
Il miglior gioco dall'inizio dell'anno è stato Pentiment, che è anche il solo non horror. È una splendida storia di redenzione e accettazione, di perdono e di scoperta di sé attraverso i propri errori. Si interpreta un miniaturista che in un villaggio medievale assiste ad alcuni omicidi e aiuta a risolverli. Nello stesso tempo, costruisce il suo percorso come uomo e come membro della comunità . Ha immagini incantevoli, riflessioni importanti che mettono il giocatore stesso di fronte alla propria fallibilità e un personaggio femminile strepitoso che prende il timone nel terzo atto. Un gioco intenso, emozionante, unico. Mi ha rapita.                                              

Della vita reale, per questa volta, non parliamo. Lascio che siano le storie a parlare per me: loro hanno sempre le parole migliori per dire quello che io non so comunicare.

giovedì 21 dicembre 2023

2023 - un riassunto: le letture più belle

18:19
Quest'anno sono riuscita a leggere molto meno di quello che avrei voluto, ma sono stata abbastanza fortunata da incontrare sul mio percorso romanzi che mi hanno fatto presto dimenticare che la quantità ha lasciato un po' a desiderare. Non parlerò di ogni singolo libro letto quest'anno, ma giusto di quelli che resteranno con me un po' più a lungo.





La saga di Blackwater






Io e il Moderatore abbiamo preso l'abitudine di leggerci i libri a voce alta. È iniziata lo scorso anno, perché volevamo entrambi leggere Solaris e abbiamo deciso di "consumarlo" così. Il più delle volte leggo io a lui mentre siamo in auto per i tragitti un po' più lunghi, e alla fine anche i primi tre volumi della ormai celeberrima saga ce li siamo goduti così. Ora che ne abbiamo consumati tre mi sento di dire che è stata davvero la lettura adatta ad essere realizzata in compagnia, perché questo mix tra La forma dell'acqua e Dinasty si presta molto ad una lettura collettiva, commentata insieme. Questo ha reso la già simpaticissima vicenda se possibile ancora più accattivante. La storia ovviamente la conoscete perché se possibile sono i libri più condivisi e chiacchierati dell'anno - con l'eccezione del fairyporn di booktok - e anche io ne ho parlato ampiamente in più occasioni, qua ripeto velocemente quanto già espresso: li trovo graziosissimi e goduriosi, che scorrono via come acqua fresca senza mancare di qualche scena bella intensa ed esplicitamente gore che sarà la delizia degli amanti del genere. Penso che proseguendo si farà sempre più oscura e non vedo l'ora di vedere come andrà in conclusione.

Famiglie complesse





Anche questi li abbiamo già affrontati qui sul blog ma non sarebbero mai potuti mancare da un bilancio di fine anno. Sono due modi molto diversi di raccontare le famiglie, uno molto serio ed intenso (quello di Espach) e uno dissacrante e divertente (quello di Raimo). Il primo fiction e il secondo autobiografico, il primo una lettera aperta a chi non c'è più e il secondo in un certo modo quasi una lettera a se stesse. Mostrano come due approcci così diversi al trauma possano raggiungere lo stesso scopo: parlare al cuore di chi ne ha uno tutto suo, di trauma, per mettere insieme sul piatto quello che resta e cercare di ricostruirlo per guardare al futuro. Sono entrambi racconti di spietata sincerità su cosa sia l'infanzia e su cosa sia la crescita e su come sopravvivere alle famiglie d'origine. Il secondo si presta come perfetto regalo di Natale, il primo per l'amor del cielo no che è straziante.

True crime





Solo due sono stati i testi true crime che mi hanno accompagnata nel 2023 e francamente quando a scriverli sono i due maestri del genere allora sono sufficienti. Il testo di Stefano Nazzi, giornalista e oggi anche idolo delle masse grazie al suo ottimo podcast Indagini di cui sono amante devota, è ben diverso dagli episodi che ci regala ogni mese. Non si concentra infatti sulle indagini e i processi ma sposta il focus sui colpevoli, costruendo un profilo completo e attento delle persone che hanno compiuto alcuni tra i reati più gravi della cronaca italiana. In Nazzi, che è un professionista serio e competente, manca del tutto il desiderio di fare facile pornografia del dolore, e il suo lavoro è caratterizzato da una serietà e da un rispetto che lo rendono il migliore in Italia. Non si lascia andare a congetture o ipotesi, non fa commenti inopportuni e il suo tono è sempre quello di chi vuole solo trovare la chiave corretta per raccontare una storia. Il libro è una conferma della sua personalità anche se continuo a preferire il lavoro che fa col podcast. Qui racconta solo 10 casi in un testo breve, fa quello che può con lo spazio che ha.
Carrère, che ve lo dico a fare. V13 racconta del processo che è avvenuto dopo gli attacchi terroristici di Parigi del 2015. Il testo è diviso in tre: una prima parte dedicata al ricordo di alcune delle vittime, una seconda dedicata all'esplorazione dei terroristi, delle loro origini e delle loro storie - fondamentali per comprendere il fenomeno - e infine una terza parte dedicata alle parti finali del processo e di quello che ha significato per tutti coloro che, come lui, ne hanno preso parte, oltre che per la nazione intera. Questo è proprio il suo pane, la sofisticatezza con cui entra in punta di piedi in momenti di dolore inimmaginabile è unica e il modo in cui parla degli individui che hanno commesso gesti impensabili è onesto e giusto. Maneggiare con cautela, il lacrimometro è alle stelle.

Donne&antispecismo






Questi due - magnifici, magnifici, magnifici - libri non potrebbero essere più diversi tra loro. Il primo è il racconto esilarane di un'ex insegnate che scopre intorno a casa alcuni omicidi e sollecita la polizia a fare meglio il proprio lavoro, mentre il secondo è un testo su un futuro post apocalittico in cui la popolazione è decimata e i pochi che sono sopravvissuti possono cibarsi solo di carne di sirena. In comune hanno il fondamentale tema dell'antispecismo, però, che è così profondamente radicato nel loro DNA da renderli più simili di quanto appaiano. 
La protagonista del primo romanzo - la mia protagonista preferita di ogni romanzo di sempre - ama gli animali molto più di quanto non ami le persone ed è per lei di fondamentale importanza che questo amore venga compreso e rispettato dalle persone che la circondano. È un testo, quello in cui si muove, che pur mantenendo un tono squisitamente simpatico riflette sulla solitudine, sulla condizione degli anziani nella società e anche su quella degli animali. Ci si chiede che cosa determina il valore delle persone o addirittura se è giusto accettare che esista un supposto valore delle persone. L'ho trovato una lettura incantevole.
Sirene è molto meno accogliente. È un testo breve ma affilato, che non ha paura di mettere l'umanità di fronte alla sua natura e che spinge durissimo. Il mondo è finito, gli umani sono finiti: restano solo la mafia giapponese e le sirene, carne da mangiare e da scopare. L'unione tra sesso e alimentazione e il confine sottilissimo che li divide è il cuore del romanzo. Laura Pugno è un carro armato, sa bene dove può insistere e dove è il caso di spostare lo sguardo (spoiler: quasi mai. Occhio a tutti i trigger warning possibili) e questo suo testo è per me indimenticabile.

Donne del mito





Le nebbie di Avalon è, nonostante le immense problematicità della sua autrice, il mio romanzo preferito, lo dico senza doverci pensare due volte. Sto quindi, se pur con i miei tempi, proseguendo nella lettura del ciclo di Avalon e questo che vedete qui sopra è il secondo volume. È un prequel della storia che tanto ho amato e si colloca all'inizio della vita dell'isola di Avalon e racconta la nascita del culto delle sacerdotesse. Nonostante questo, o forse proprio per questo, non sono sicura di aver amato La casa della foresta tanto quanto avrei voluto. Tutto il tempo che avrei voluto dedicato alle ragazze, alla nascita di un culto nuovo che le mettesse al centro e le rendesse protagoniste, è invece dedicato ad una storia d'amore tormentato, e purtroppo non era quello che cercavo. Peccato. L'ho inserito comunque perché quell'ambientazione, quei momenti che se pur pochi ci sono, quel mondo lì, mi fanno impazzire e trovo che l'autrice, mannaggialamiserie, sia ottima.
Lavinia, dal canto suo, ha a sua volta un'ottima autrice. LeGuin riprende in mano la storia di Lavinia, moglie di Enea, e le regala lo spazio che nell'Eneide non le veniva concesso. La seguiamo bambina, poi giovane donna contesa tra mille pretendenti desiderosi di prendere in moglie la figlia di re Latino, e infine moglie prima e vedova poi dell'eroe. Lo spazio che le viene concesso serve a LeGuin per spiegare a Lavinia come mai non le fosse stato dato prima. Nata in una famiglia nobile, infatti, alla giovane non è dato spazio di essere se stessa nonostante un padre affezionato e illuminato. Non c'è spazio per la crescita personale a meno che questa non vada nella direzione del bene del regno, non c'è desiderio, speranza, volontà. Ci sono una missione da compiere e un ruolo da svolgere, il resto sono solo capricci. 
Il solo momento in cui a Lavinia sarà concesso di decidere per sé sarà nei boschi, nella natura, dove può muoversi lontana da ciò che la sua società ha deciso per lei.
Tutte le donne in questione, quindi, è solo nella natura che hanno spazio per esprimersi, per esistere prive di aspettative e compiti. È solo protette dai boschi che possono essere autenticamente felici.

Donne oscure

Infine, su instagram a gennaio ho iniziato un progetto di lettura: undici testi tutti al femminile, preferibilmente di genere. Ho spaziato tra gotici più classici e narrazioni più moderne, passando per il folk locale, fino alle raccolte di racconti. Con alti e bassi è stato un viaggio così interessante che lo ripeterò l'anno prossimo. In questa sede non mi dilungherò sulle letture, tanto sono tutte state accompagnate da lunghe dirette su instagram, qui accenno solo al fatto che dovete, dobbiamo continuare a leggere le donne del perturbante, preziose e raffinate. Ho imparato tantissimo.

martedì 19 settembre 2023

Redrumia Summer Compilation 2023

10:57
 Non c'è niente che mi metta più amarezza della fine dell'estate, di solito. Non voglio sentire discorsi sul caldo e il sudore: noi rettili stiamo bene così, grazie tante. 
Questa, però, è stata senza dubbio alcuno l'estate peggiore della mia vita e sebbene i prossimi mesi non si prospettino migliori sono contenta di essermela messa alle spalle. Poiché la Vita Vera ha preteso che io le dessi tempo e attenzioni, in questi mesi sono riuscita a leggere e guardare pochissimo. La verità è che quando le cose vanno malemale non è solo il tempo a mancare, ma anche e soprattutto la testa. Il tempo libero che ho avuto l'ho sprecato scrollando i social senza sosta perché lo scorrimento di video veloci e leggeri mi ha distratto più di quanto facessero in quel momento i film e i libri. Questa fruizione rapida e che non richiede niente è stata un rifugio, ma non le permetterò più di prendersi così tanto tempo perché, come penso possiate ben immaginare, è solo un modo di scappare, ed è una cosa che non voglio più concedermi, non così.
Nonostante questo, qualcosa sono riuscita a godermi, e ve ne parlo un po'.
Sarà lunga, mettete su il caffè.

Foto di Dakota Roos su Unsplash



CINEMA

Questo è l'argomento che mi dà più dispiacere e quindi ce lo leviamo subito. Ho guardato così pochi film che mi sono sentita svuotata di ogni motivazione. Sono a mia discolpa uscite molte poche cose che mi interessassero davvero, e quelle poche che ho visto non mi hanno fatto strappare i capelli dalla gioia. Non ho neppure partecipato al fenomeno Barbenheimer, nel senso che non ho ancora visto nessuno dei due e sono interessata a recuperare solo Barbie a giorni.
Mi sono principalmente dedicata a riguardare pellicole già viste per un progetto di cui non comincio a parlare ora solo perché nei prossimi mesi vi ammorberò, ma mi ha fatto piacere perché riguardare cose già note è spesso di comfort e un bell'esercizio di analisi. Devo farlo più spesso, la fomo mi spinge sempre verso la ricerca di cose nuove quando invece anche prendersi del tempo per riguardare cose già note è molto gratificante.
Tra le pochissime prime visioni vi cito solo L'esorcista del papa - così odiato dal web ma così squisitamente autoironico che io mi sono divertita come una pazza - ma anche The Blackening, una horror comedy che parla di poc, molto meta e scanzonata ma che secondo me manca del mordente che avrei voluto avesse, e infine The Borderlands, un found footage inglese del 2013, così spaventoso e curato che mi ha confermato per l'ennesima volta che i ff sono proprio i film della vita mia. È ambientato in una piccola comunità, in cui due sacerdoti sono invitati dal Vaticano ad investigare perché all'interno della chiesa si sono verificate delle attività sospette. Quindi, ricapitolando: piccola comunità, film minimal con pochissimi ambienti e altrettanti personaggi, ambientazione religiosa. Ha tutti gli ingredienti necessari per diventare uno dei film del cuore della Redrumia e infatti sono certa che sarà uno di quelli che tornerò spesso a vedere.

E, con mio sommo sgomento, mi tocca riconoscere che per il cinema è tutto qui.

LIBRI

Un pochino meglio è andata per quanto riguarda le letture. Involontario fil rouge è stato il lutto, e anche se ammetto che non è il periodo giusto per me per letture di questo tipo, ho trovato in questi mesi dei romanzi davvero eccezionali.
Il primo è  Appunti sulla tua scomparsa improvvisa, di Alison Espach. È il racconto, in prima persona, di una sorella minore che sopravvive alla morte della maggiore. Non è solo una narrazione molto intensa sul lutto e su come si è costretti a sopravvivere, ma anche un racconto così lucido dell'infanzia che è per me stato sconvolgente scoprire che non si trattasse di un'autobiografia. Il modo in cui la protagonista, Sally, racconta alla memoria della sorella Kathy che cosa sia accaduto dopo la sua morte in un incidente stradale, non è pornografia del dolore. È un dolcissimo modo di raccontare come si rimane, come il mondo prosegue anche se una sua piccola parte si è cristallizzata nel tempo. Un romanzo molto doloroso ma onesto con il lettore, che non sfrutta facilonerie letterarie per infliggere sofferenza non necessaria. Mi è piaciuto tanto.
Sempre di lutto parla How to sell a haunted house, l'ultimo romanzo di Grady Hendrix, in cui due fratelli che si sono allontanati col tempo devono ritrovarsi dopo la morte accidentale di entrambi i genitori per gestire le questioni burocratiche e in particolare la vendita della loro casa. Parla di sorelle maggiori che per tutta la vita si sono sobbarcare il peso del loro ruolo e di come crescendo devono scontrarsi con chi la difficoltà del ruolo in questione non la comprenda. Hendrix parla sempre in qualche modo di prigionia, e anche questo non è da meno: la prigione familiare è quella da cui non ci si scrosta mai, e che lascia segni e cicatrici che durano per sempre. Qui, a restare indietro, non sono solo i segni, ma anche delle inquietantissime bambole di pezza da ventriloquo, che la mamma dei due fratelli ha cucito con passione per tutta la vita e che hanno uno spietato attaccamento alla vita.
Cito in velocità Maeve, il libro di Germano che sicuramente conoscete già e che io mi sono comprata a Vinci alla Festa dell'Unicorno. Si tratta di uno spin off di Girlfriend from Hell, il suo primo romanzo sulla Pandemia Gialla, e mi è piaciuto tanto quanto. Sono libri pieni di una disperazione cruda, che anche in questo caso non ha tempo di piangersi addosso: sono degli apocalittici privi di speranza ma non per questo privi di umanità. Le persone sono autentiche, l'empatia totale. 
Forse il libro dell'estate però è stato per me Sirene, di Laura Pugno, che mi ha consigliato la mia amica Silvia (grazie!). È un testo breve ma spietato, completamente diverso da qualsiasi cosa io mi aspettassi. Siamo in un mondo in cui l'umanità è annientata da un cancro causato dal sole, e i pochi sopravvissuti ora allevano sirene, la cui prelibata carne viene sfruttata in ogni modo possibile. Pugno non ha paura di essere estrema: sesso e cibo si fondono in un ibrido in cui tutti i desideri della carne vengono soddisfatti da creature il cui livello di autocoscienza non è chiaro. In un mondo finito sono comunque gli uomini a farla da padroni, piegando la natura a proprio piacimento, plasmando la realtà in modo da trarne in ogni caso il maggior profitto possibile. La criminalità organizzata comanda quello che resta della società, il potere è corrotto, le donne sono merce di scambio e le sirene tutto quello di cui un uomo ha bisogno per sopravvivere. Un grande lavoro che, tra le altre cose, è profondamente antispecista. Sirene è un testo spietato, esplicito, crudissimo: per me un lavoro eccellente davvero. 
Infine, un consiglio piccino piccino che arriva sempre da una mia amica. Martina, infatti, mi ha prestato Quel che resta delle case, un racconto di Emanuela Canepa uscito con la nuova casa editrice Tetra, che pubblica ogni mese quattro racconti in un formato piccino picciò, quadrati e a soli quattro euro. Questo parla di folklore, stregoneria, legami familiari, eredità, assenze, case affamate. Lo fa senza mai esplicitare nulla, solo il dispiacere della mancanza e la paura del nuovo. L'ho trovato molto affascinante e ne avrei voluto molto di più. Esplorerò meglio Canepa, nella speranza che decida di farlo diventare un romanzo intero.

MIX

Soli due podcast hanno caratterizzato la mia estate: Tredici, il racconto curato da Il Post sulle rivolte nelle carceri di marzo e aprile 2020 e Dove nessuno guarda, il lavoro di Pablo Trincia sulla vicenda di Elisa Claps. Sono entrambi lavori professionali la cui qualità non è in discussione, ma diciamo che tendo a preferire il tono più giornalistico e analitico del Post a quello di Trincia che a volte trovo un po' melò, soprattutto quando si parla di true crime. I due casi, però, sono ovviamente frustranti e dolorosi, e hanno in comune la totale assenza di empatia, il disinteresse per l'altro, la mancanza di cura e premura per gli esseri umani. E poichè siamo in un periodo storico in cui questa mancanza di premura ci pare legittimata da chi invece le persone dovrebbe proteggerle, ecco che ascolti del genere diventano più importanti che mai. 
Quest'estate, poi, ci ha lasciato Michela Murgia. Poiché il suo uso delle parole mancherà molto, sto recuperando tutti gli episodi di Buon vicinato, la piccola rubrica che durante la pandemia ha tenuto sul suo canale Youtube insieme a Chiara Valerio. Valerio è la mia girl crush del momento, una mente che trovo strabiliante. Vederle fare, insieme, questo esercizio di argomentazione e pensiero è incredibilmente stimolante. Due menti brillanti che giocano con pensiero e parola, per me bellissimo e arricchente.
Infine, il recente viaggio in Irlanda. Ci siamo concessi di partire, io e Riccardo, nonostante il periodo non fosse ideale per allontanarsi da casa, perché dopo i due mesi precedenti io ero a tanto così da un esaurimento nervoso. Avevo bisogno di andare via, e questo viaggio, che in teoria è stato il nostro viaggio di nozze, era già stato rimandato dopo l'evento molto spiacevole di questa primavera. Ci siamo regalati due settimane in cui dedicarci solo a cercare di riempirci gli occhi di bellezza e leggerezza, ed è stato fondamentale. L'Irlanda si presta molto a viaggi anche piuttosto introspettivi, di quelli che si fanno quando c'è bisogno di prendere davvero contatto con quello che si affronterà una volta tornati a casa, e per me è stato davvero così. Abbiamo passeggiato tra abbazie abbandonate e immensi prati verdi, toccato l'oceano e rallentato i ritmi di una vita che non concede tregue. È stato salvifico, e l'Irlanda è così bella che si è presa un pezzetto del cuore. 

Ora si riparte con una delle parti belle della vita, quella in cui parlo di cinema dell'orrore su internet con degli sconosciuti. Sono tornata su Instragram, su TikTok, su Twitch. A breve tornerà anche Nuovi Incubi, e chissà che in questa stagione io non riesca ad essere più costante anche con il mio amato vecchio blog. Il resto, piano piano, si sistemerà.


lunedì 6 marzo 2023

Rileggere Harry Potter a 32 anni

18:19
Non ho mai fatto mistero, sebbene ne parli pochissimo, della mia relazione con Harry Potter. Nonostante provi un profondo imbarazzo per la sua autrice, che si è rivelata una persona che speravamo tutti non fosse, sono molto legata ai romanzi. Non fraintendetemi, quindi, questo che prevedo sarà un post fiume non serve in alcun modo a difendere né Rowling né chiunque condivida i suoi miserabili pensieri e anche il suo atteggiamento da povera vittima della woke generation.
Ma torniamo alle cose belle. Letti per la prima volta da bambina, esattamente coetanea dei personaggi che mano a mano sono cresciuti con me, Hogwarts è stata casa quando tanto avevo bisogno di averne una. Ho con i libri quindi un rapporto molto intimo, mi legano a loro un profondo affetto e ricordi dolcissimi. Ne sono pure piuttosto gelosa.
Erano anni, però, che non rimettevo piede nel mondo magico, e siccome ho preso questa abitudine di scrivere libri per bambini mi sembrava che rileggere la saga dal successo più straordinario di sempre potesse essere una buona idea. Lo è stata, nonostante tutto. 
Ne parliamo insieme, vi va?




Non ho pretesa, in questa sede né altrove, di fare un'accurata indagine di mercato per comprendere e analizzare le ragioni per cui questa serie di libri sia diventata il fenomeno travolgente che è ancora oggi, non ne ho proprio le competenze e lo trovo anche un po' noioso. Il mio vuole essere solo, come di solito da queste parti, un post a sentimento, una chiacchierata insieme su qualcosa che tanto mi sta a cuore.
Certo, riletta con occhi più maturi la saga ha una serie di problematicità che oggi sono evidenti ma che da piccola non avevo mai colto. Una su tutte: una vera e propria ossessione per il peso dei personaggi, che è sì coerente con il periodo in cui è stato scritto, ma che oggi agli occhi del lettore stona parecchio. I personaggi grassi si dividono in due categorie: i cattivi, come Dudley che non ha altre caratteristiche fisiche che non siano il suo peso sempre crescente o la Umbridge, e i materni, come la signora Weasley, Hagrid e in un certo senso anche la Signora Grassa, che con il suo ruolo e la sua posizione in un certo senso "protegge" i Grifondoro. 
A costo di sollevare delle ovvietà, è una saga completamente priva di rappresentazione, in cui tutti i personaggi sono bianchi, abili, etero - con l'eccezione di Silente, volendo, anche se questa è una cosa che non sta nei romanzi ma solo nelle dichiarazioni della sua autrice fatte pure, a mio parere, in modo furbetto e disonesto. Parlando ai giovanissimi, non sono problematicità da nulla: stiamo dicendo loro che se non rientrano in queste caratteristiche non sono i protagonisti, e che questa saga non parla a loro. Noi che siamo della generazione che con Harry Potter è diventata grande siamo vittime storiche dell'ossessione per la magrezza malsana che i primi anni 2000 ci vendevano come sola possibilità di essere accettabili, e la saga ha rinforzato quello che tutti gli altri ci dicevano. Sebbene nei romanzi successivi questo costante rimando al peso vada leggermente scemando, il danno ormai era fatto. Tutto il resto, invece rimane invariato, dal primo al settimo.
Eppure, e mi perdonerete per l'eccesso di miele, non ha perso la sua magia. Riletti oggi, i romanzi di Harry Potter si sono confermati tra le più straordinarie storie per ragazzi mai scritte, e proverò a spiegarvi, ma soprattutto a spiegarmi, il perché.
Quello che funzionava allora e funziona oggi è il potentissimo senso di appartenenza. La costruzione così dettagliata dell'universo magico porta a totale immedesimazione. Come dicevo, nel momento della mia vita in cui mi ci sono approcciata avevo bisogno di un luogo a cui appartenere, e Hogwarts me lo ha dato, perché lo diventa per i suoi studenti. Diventa casa, è accogliente e calda, è familiare e dolce, è un caldo abbraccio in cui rifugiarsi. Il modo in cui il castello da solo prende il posto della famiglia, fin da quando i suoi studenti sono poco più che bambini, è candido e radioso. Si sale su un treno che ti porta in un castello magnifico che per tanto tempo finirai per chiamare casa, e funziona perché all'interno del castello si ricreano esattamente le dinamiche familiari che hai da poco lasciato. Hai amici che diventano fraterni perché non hai scelta, insegnanti che non diventano mai vere e proprie figure genitoriali ma che almeno riportano l'aspetto autoritario in un luogo che altrimenti ne è completamente privo. Non ci sono educatori o figure alla pari che si occupino dei bambini quando le lezioni sono finite. Si fa affidamento sugli altri studenti, che vengono premiati con piccoli ruoli di autorità, come i Prefetti e i Capiscuola, ma tutto sommato non appena si sale sul treno viene richiesto agli studenti di diventare grandi nel modo più dolce possibile: appoggiandosi gli uni agli altri.
Questo è per me il vero, immenso, punto di forza: il valore dell'Altro. Lo so, lo so, conoscendo oggi la sua autrice è quasi ridicolo, ma sto cercando di separare opera e autore. 
Harry Potter è speciale senza avere fatto nulla per esserlo. Non è il più intelligente ma neppure quello che lo è di meno. Non ha poteri particolari, doni che lo rendano diverso. Lo è in virtù di quello che qualcun altro ha fatto per lui (di nuovo, il valore dell'Altro), ha un potere che gli è stato donato senza alcun merito. E questo è magnifico, è rincuorante, è anti performativo. In un mondo che ci chiede costantemente di provare quanto siamo meritevoli delle cose che abbiamo, Harry ha tanto senza avere fatto niente, ma soprattutto è circondato di amore. E su questo ci torniamo.
Tornando sul discorso del tanto famigerato world building, invece, quello che mi ha dato la sensazione di essere l'elemento vincente è composto da due cose: familiarità e rispetto.
Quando parlo di familiarità intendo che fa riferimento costante alla vita che i lettori conoscono così bene. Hogwarts è una scuola, e pertanto ha regole, lezioni, compiti. Ha momenti di divertimento, di quelli che ti porti appresso per la vita intera, e altri rognosi da cui desideravamo scappare, come il professore che pensiamo ci detesti o la materia in cui facciamo schifo. Lo sport ha un ruolo fondamentale, al punto che non solo il Quidditch è stato creato dal nulla con un complesso sistema di regole, campionati e capacità richieste, ma ha anche un peso importante in termini di pagine spese per parlarne. A partire dai primi volumi, dalla lunghezza più contenuta, capitoli interi sono dedicati a partite, allenamenti, squadre. Alcuni eventi fondamentali succedono a bordo campo, durante le partite, in grandi occasioni come la Coppa del Mondo. La vita di un qualsiasi ragazzino - inglese ma non solo - è portata in scena in modo realistico, ma migliorato. La vita comune subisce il più bello degli upgrade: la magia.
E quindi gli elementi più tradizionali del mondo magico come lo conoscevamo già prima nella cultura popolare diventano parte dell'esperienza comune dei ragazzini, creando sulla carta la vita dei sogni. 
In questo senso però non tratta come stupidi i suoi giovani lettori, e qui andiamo nella parte sul rispetto. Considera chi legge alla pari degli adulti e pertanto anche la costruzione del mondo magico adulto è reale: ci sono un Ministero, con tutti i problemi di elezione e successione, Tribunali, con annessi problemi di corruzione, banche, istituzioni burocratiche, prigioni. Col passare degli anni i lettori sono introdotti a tematiche più "mature", che però fin da La pietra filosofale sono pronti solo per essere esplorati. È tutto stato sempre lì, serviva solo il tempo di conoscerlo per bene. 
Ovviamente a rendere il tutto molto buono è la "premeditazione", la costruzione a tavolino di un mondo complesso e completo ma alla portata di lettori di ogni età, che hanno la sensazione di leggere qualcosa che parli a loro ma che li faccia sentire grandi.

A toccare il mio cuore, però, sono altri due elementi.
Come dicevo prima, l'Altro. Harry Potter da solo è un simbolo, nulla più. Fin dalla sua nascita, però, è stato graziato da un gruppo di persone che lo hanno amato a prescindere dal suo ruolo, e crescendo ha saputo costruirsene uno suo, di gruppo, che lo amasse altrettanto. Non c'è una sola circostanza in cui se la cavi da solo, in tutti i libri, a partire dai primi bisticci con Draco fino alla magnifica Battaglia di Hogwarts. Harry vive in una nuvola di amore, che lo protegge e lo incoraggia, che lo supporta e lo rimprovera quando necessario. Sono innumerevoli, nei romanzi, gli abbracci stretti, quelli che ti dai solo quando pensavi che non avresti mai più rivisto qualcuno, le mani intrecciate di nascosto per incoraggiarsi, le parole sussurrate alle orecchie per aiutarsi. È un mondo fatto di quell'intimità che hanno solo le persone che potrebbero perdersi da un momento con l'altro, e quello è proprio un amore diverso da qualsiasi altro. Poiché la perdita nei romanzi esiste, e anche frequente, quell'amore qua si fa sempre più forte. 
Sì, il trope della famiglia per scelta è uno di quelli che tanto mi emozionano, e questa saga ne è la quintessenza. La sola famiglia tradizionale, i Weasley, non fa altro che aprirsi agli altri, allargando questo piccolo mondo in cui quel poco che c'è è di tutti, e in cui la profonda dignità della povertà impedisce di lamentarsene. Molly non è solo quella che cucina per tutti, è quella che ama tutti come se li avesse messi al mondo lei. È preoccupata per tutti allo stesso modo, è protettiva e accogliente, senza un istante di cedimento. Siamo su questa barca insieme e insieme remiamo per arrivare alla destinazione.
L'altro elemento, infine, è l'Ordine della Fenice. Anche questo non è un mistero per chi ha già letto questo blog, ma i ribelli mi straziano il cuore. Quelli che in pochi, barcamenandosi tra il nulla che possiedono, muoiono per un ideale. Quelli che hanno una missione più importante della vita stessa, ovvero liberare il mondo dall'oppressore. L'Ordine vecchio, decimato dai primi anni di Voldemort, che si ricostruisce e fa spazio ai nuovi membri, tutti insieme con la paura di perdersi ma con un nemico da combattere per liberare il popolo intero. Con i vecchi caduti nel cuore e le nuove generazioni da proteggere. I ribelli, come piccola pentola di fagioli che sobbollisce al di sotto del frastuono del male, che si fa spazio in un mondo in cui il cattivo si è preso le istituzioni e la libertà. E quindi le riunioni di nascosto, le parole d'ordine per accedere, un nascondiglio segreto, modi creativi per comunicare, tutti piccoli momenti che mi scaldano il cuore e mi fanno sempre credere che, comunque vada, un piccolo gruppo di ribelli da qualche parte sta combattendo per qualcosa di più importante del mondo intero. Mi piace pensare che avrei il coraggio di essere una di loro. 

Harry Potter è stato costruito a tavolino per funzionare con chiunque, persino con i ragazzini dalla vita privilegiata, perché riconoscono aspetti che sono familiari anche a loro e hanno una bella avventura magica. È nei ragazzini a cui la vita ha riservato un po' di iella, però, che si prende uno spazio immenso nel cuore. Perché ti dice che quel tipo di amore lo puoi avere anche tu, anche se non sei niente di speciale ma solo perché esisti, perché quel tipo di famiglia lì lo puoi trovare anche tu, quando incontri qualcuno che ti assomiglia e gli lasci modo di scoprirti, perché ti racconta che casa non è un'abitazione, e se lo è non è una reggia lussuosa: è il luogo in cui senti che puoi dormire la notte sapendo che per un po' il male non ti può venire a prendere.
Per me, oggi, è ancora un po' quel luogo sicuro lì: in mezzo a mille tribolazioni, so sempre che alla fine "all was well", e ricomincio a respirare per un po'.

lunedì 22 novembre 2021

La manutenzione dei sensi, quella dolce

20:58

 


Eccomi qua, dopo la bellezza di nove mesi – più o meno. A quanto pare, la costanza non è il mio forte, ma nel mezzo sono successe innumerevoli cose. Si è aperto e chiuso un altro lockdown, ho compiuto gli anni – rigorosamente chiusa in casa per il secondo anno di fila, alla riapertura ho fatto tante camminate faticosissime in montagna, ho scritto una tesi sulla mia dolce Natalia e sono riuscita anche a laurearmi in presenza, con emozioni e angosce connesse. Ho passato le mie ferie estive in un posto meraviglioso, una piacevole sorpresa e ho conosciuto persone che rimarranno nel mio cuore.


Ho fatto corsi di editoria, uno tutt’ora in corso, ho guardato tanti film – la maggior parte distrattamente – e tante serie tv. Ho vissuto il mio primo Salone Internazionale del libro e sono diventata una bambina che va per la prima volta a Disneyland. Ho letto tanti libri, gran parte dei quali collegati alla mia tesi. Di tutti gli altri, una piccola parte rimarrà ancorata e incollata nei miei pensieri. Alcuni sono stati troppo intimi per condividerli con qualcuno, e quindi li ho tenuti per me.


Erano mesi che preparavo qualcosa di scritto e, invece, ieri pomeriggio ho finito questa dolcezza, in un viaggio uggioso di ritorno da Pavia. Mi sono resa conto che ai libri ci si affeziona senza un vero e proprio motivo; a volte, ci sono delle virgole nascoste che rimangono latenti e che, quando chiudi un libro, alla fine, ti viaggiano per il cervello, ti scavano.


«A cosa stai pensando?», mi aveva chiesto, proprio quando il mio pensiero stava per essere archiviato nel cassetto della registrazione.
«Al fatto che mi piacerebbe abbracciarti». Ero stato sorpreso dalla mia sincerità. «Non lo faccio solo per non darti noia», avevo aggiunto cercando di ostentare indifferenza.
Lui non aveva risposto, rimanendo con le labbra serrate per un po’. Poi mi si era premuto contro, puntando la testa sotto la mia ascella e cominciando a dare piccoli colpi. Un pulcino che vuole uscire dall’uovo, vedere finalmente al di là delle membrane lattiginose che avvolgono l’interno del guscio. Finché era sbucato dall’altra parte, appoggiando la guancia contro il mio petto.
Lo avevo fissato.
«Mi sono abbracciato da solo», aveva detto con l’espressione buffa delle occasioni insolite.


Estrapolata dal contesto di queste 250 pagine, sembra uno scambio di battute da niente, quasi melenso, dolciastro, un po’ appiccicoso. Un’effusione un po’ fastidiosa. E invece no, perché questo abbraccio Leonardo lo aspetta da tanti anni, aspetta che venga spontaneo da un piccolo – ma ormai un po’ cresciuto – Martino, mio dolce omonimo, che non ama gli abbracci. Non ama il contatto fisico, le cose fuori posto, i rumori molto forti. Martino ha la sindrome di Asperger e Leonardo lo scopre solo dopo qualche tempo che Martino fa parte della sua famiglia. Un’appartenenza, in realtà, provvisoria perché è in affido temporaneo, intanto che i servizi sociali cercano una famiglia tutta per lui.


Correrò il rischio di sembrare estremamente ripetitiva, ma la dolcezza di questo romanzo è infinita. È in ogni personaggio, in ogni pendio delle montagne tra cui Martino diventa un uomo, in ogni descrizione e in ogni pensiero di un papà che diventa genitore per una seconda volta: per caso, distaccato per non rischiare di affezionarsi ma, infine, incredibilmente papà. È la dolcezza di un bambino che cresce con la consapevolezza di essere diverso dagli altri sulla carta e lo accetta, sentendosi comunque accomunato a ogni persona che lui e Leo ospitano nella loro appartata casa di montagna. È la dolcezza di un uomo di cinquant’anni che durante una notte insonne, in un letto diviso con il vuoto, decide di lasciare Milano per trasferirsi nella casa dei sogni della sua Chiara. È la dolcezza di Augusto, un padre, un montanaro, un nonno acquisito, un uomo dalle poche parole, con le mani rovinate dal lavoro, ma un’anima aperta a questo bambino, di cui non conosce niente, ma lo sente un po’ come lui. È la dolcezza di Leonardo, che spera che i servizi sociali abbiano dimenticato i documenti dell’affido temporaneo e che il tempo si sia dimenticato di scorrere e di far scoccare la lancetta nel diciottesimo compleanno di Martino. È la dolcezza di papà Leonardo, che si sente così lontano dalla comprensione di questo figlio non suo, che Augusto capisce così bene.

Io non lo so se ho le parole giuste per trasmettere la dolcezza, l’inadeguatezza, la sincerità e l’affetto che ho riversato e ritrovato in questo libro. Faggiani sì, e le ho lette tanto bene. 



Franco Faggiani, La manutenzione di sensi, Fazi, 2018

domenica 9 maggio 2021

Tre saggi sul cinema dell'orrore

08:31

 Devo soffiare via la polvere dal blog, è un po' che non torno.

Presente quando dicevo che il 2021 mi stava mettendo alla prova? Pare che non sia ancora bene convinto dei risultati, ecco, e che mi voglia testare ancora un po'. 

Mi sfogo usando molto di più Instagram, che è un po' più immediato, però poi quel posto qua comincia a mancarmi molto e quindi rieccoci, questa volta per parlare di libri.


All'inizio dell'anno sono entrata in possesso, attraverso modi che il fruitore medio di internet conosce alla perfezione, di un numero bello sostanzioso di saggi sul cinema dell'orrore, di quelli che si trovano su amazon a 50 paperdollari l'uno spediti dall'inferno con 70 milioni di euro di spese di spedizione. Parlo sempre per iperbole, ma ci siamo intesi.

Insomma, finalmente quest'anno ho ricominciato a fare la cosa che mi piaceva di più: studiare. Non che prima non lo facessi, ma adesso ho a mia disposizione una bella serie di libroni che accarezzo tutte le sere prima di andare a dormire.

Oggi parliamo dei primi tre.


Foto di David Kennedy su Unsplash

. Men, Women and Chainsaws. Gender in the modern horror films. Carol J. Clover

Non potevo che cominciare unendo due delle mie passioni più grandi: horror e femminismo. Questo, del 1992, è la vera pietra miliare sul tema. Non è solo il testo che ha introdotto la final girl sia come termine che come oggetto di studio, ma ha davvero vivisezionato alcuni dei generi principali per presentarceli in ottica femminista. 
Si parla nello specifico di slasher (ovviamente), di demoniaci (altrettanto ovviamente) e infine di rape and revenge (va beh chiaro, no?).
Quello che fa la favolosa autrice, con un linguaggio semplicissimo e discorsivo, è portare alla luce le dinamiche che hanno fatto sì che storicamente certi film siano stati tutti realizzati in un certo modo. La motivazione principale è una, quella che possiamo facilmente immaginare tutti: il target del cinema dell'orrore è stato da sempre l'uomo bianco. Basta ampliare di un minimo le proprie conoscenze sul tema per sapere che l'uomo bianco è il target di tutto, anche inconsapevolmente. Del resto, Simone de Beauvoir lo ha sempre detto, noi donne siamo l'Altro, il diverso, l'eccezione. Il cinema è un'industria, e in quanto tale si unisce a tutte quelle dinamiche che vedono le donne come la minoranza. Le donne sono quindi le sole vittime deliberate dei villain degli slasher (se si uccide un uomo è perché si è messo in mezzo ai piedi), e il "tifo" dell'audience è orientato verso il killer per quasi tutto il tempo. Quasi, perché ad un certo punto si delinea il profilo della final girl, e l'attenzione dell'uomo si sposta. La final girl è sì la virginale candida che ha visto morire le sue amiche disinibite, ma assume caratteristiche maschili al punto che spesso persino i nomi lo sono: Laurie, Charlie, Sidney, Max. Ma non solo. Sono le donne quelle possedute nei film demoniaci, perché per la religione cattolica stessa la possessione avviene in caso di maggiore fragilità, sono loro quelle che aprono la mente al demonio. 
Infine, ma non per importanza, il tanto chiacchierato rape and revenge. 
Qua va segnalato un trigger warning importantissimo: il libro parla approfonditamente (mooooolto approfonditamente) di I spit on your grave, e lo fa con dovizia di particolari. Il film è una visione di merda (non che faccia schifo il film in sé ma che di sicuro sia difficilissimo, quasi impossibile per una donna, è innegabile) ma il libro non lo rende più semplice. L'analisi che ne fa è importantissima, approfondita, su un tema che a me ancora oggi non fa avere le idee chiare.
Questo non è mica un libro che posso consigliare io, è uno di quei testi fondamentali che avrei voluto conoscere molto prima, ed è anche quello che mi ha fatto capire che voglio prendere una direzione che unisca sempre di più i miei due argomenti del cuore, almeno per quanto riguarda lo studio. E se un libro mi fa venire ancora più voglia di studiare, per me è il libro migliore del mondo. Questo, peraltro, è molto vicino ad esserlo davvero. Lo rileggerò spesso.


. Hideous progeny. Disability, eugenetics and horror cinema. Angela M. Smith

Avevo deciso di concentrarmi su saggi che non fossero semplici storie del cinema, per aumentare la mia capacità di analisi e di raccontare il cinema su questo spazio. Mi sa che con questo libro ho fatto il passo più lungo della gamba. Chissà se è un modo di dire di tutta Italia.
Dunque, questo è un saggio che, come si intuisce dal titolo, mette in relazione i grandi film classici degli anni '30 con, appunto, disabilità ed eugenetica.
Voglio chiarire subito come la penso: qua è stata colpa mia. Io per quella lettura qua non ero proprio pronta. Mi interessava da morire il tema, proprio perché come dicevo su voglio fare un percorso che non sia solo storico. Però per me questa è stata una lettura troppo impegnativa. Non ne ho tratto troppo di positivo perché ho passato metà del tempo su google a cercare di capire cosa mi stesse dicendo. Leggo in inglese da diverso tempo, ma questo testo ha un linguaggio molto scientifico (potevo arrivarci visto che ha già l'eugenetica nel titolo? sì) che mi ha reso la fruizione complessa. Già io e la scienza siamo due mondi lontanissimi, sono una capra totale (migliorerò) pure in italiano, figuriamoci in inglese. 
Alla fine ne sono uscita indispettita e con l'ego in frantumi, ma a quelli di voi che sono interessati lo consiglio molto perché il tema è interessantissimo: si rileggono Dracula, Frankenstein e naturalmente Freaks in modo da approfondire attraverso di loro il significato che l'eugenetica ha avuto in quel momento storico e il modo in cui la disabilità è stata vissuta. Non posso quindi dire nulla di male sul saggio in sé, che parla di cose importanti e lo fa con enorme competenza.
Sono io che quella competenza lì ancora non ce l'ho. Ma ritornarci è una delle missioni del mio viaggio tra tutti questi saggi.

. Shock value. How a few eccentric outsiders gave us nightmares, conquered Hollywood, and invented Modern Horror. Jason Zinoman

Dopo la batosta precedente, dovevo darmi una ridimensionata. Ok Mari che vuoi fare un bel percorso di studio, ma non devi partire subito dalle cose più toste. Ho deciso quindi di passare a questo testo adorabile ma decisamente più leggero. Jason Zinoman ci racconta di quei nomi che oggi guardiamo con le stelline negli occhi. Parla (tanto) di Carpenter, di O'Bannon, di Romero, Craven e Polanski. Ci parla di loro con grande affetto, delle loro vite e delle cose che hanno portato i loro film in essere. Ci sono racconti di litigate, gossip su matrimoni falliti, amicizie rovinate e problemi con i produttori. È un libro divertentissimo, che offre uno sguardo sui retroscena, su cosa significava all'epoca avere un film in testa e dover trovare il modo di realizzarlo come lo si voleva. 
Non è un saggio che analizza il cinema, ma racconta come certe storie oggi iconiche sono nate, e questo passa anche attraverso la vita dei loro creatori. Per quanto mi riguarda un testo ben più leggero dei precendenti, ma non per questo meno interessante, anzi. 
Ottimo per ricavarne aneddoti da raccontare a tavola per fare colpo su quella tipa che vi piace e che è venuta a cena con la maglietta di Debra Hill. Lei con ogni probabilità l'aneddoto lo saprà già, ma voi mi sentirete più sicuri di voi e la serata filerà liscia come l'olio.


giovedì 4 febbraio 2021

Classici del femminismo: Il secondo sesso

11:25

 Rieccoci alla consueta rubrica "La Mari apre mille rubriche e ne porta avanti la metà".

Mesi fa avevo iniziato una rubrica dedicata ai classici del femminismo. La rubrica in questione consta di ben un solo post, su Una donna di Sibilla Aleramo. Dopo quella lettura, che già mi aveva messa alla prova perché è un libro straziante, ho pensato che studiando i classici non sarei potuta scappare a lungo dal loro capostipite. Il classico dei classici. Il Guerra e pace dei testi femministi. E se da una cosa non si può scappare, meglio farla subito. Quindi eccomi qua, quasi un anno dopo, stanca e riportante ferite di guerra, a parlare di quel mastodontico capolavoro imprescindibile che è Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir.



Scritto nel 1949, il testo più famoso della filosofa francese ha preso la storia dei femminismi e l'ha rivoluzionata. Leggerlo una settantina di anni dopo è un'esperienza, come dire, interessante. Immaginare la mole di lavoro che sta dietro la stesura di un testo del genere fa girare la testa. Del resto SdB parla per le donne e per farlo ha parlato, letto e studiato, un sacco di noi. Il libro, per tutta la sua imponente mole, è pieno di brani, citazioni, esperienze, testimonianze. Le note sono parte integrante della lettura, un Infinite Jest dell'esistenzialismo. 


Ma come si legge, oggi, Il secondo sesso? Questo non è un testo "attivista", per stessa ammissione della sua autrice. Le quasi ottocento pagine che lo compongono sono un approfondito saggio di natura filosofica, che solo nella sua parte finale, quella delle conclusioni, propone azioni concrete. Per tutto il corpo del testo, però, troviamo la donna vivisezionata. Prima da un punto di vista biologico, poi spirituale, poi sociale, poi storico, poi artistico. Non un solo aspetto viene lasciato fuori, la ricerca fatta è a 360 gradi. L'esplorazione passa dalle bambine, alle adolescenti, alle giovani donne, all'anzianità. Tocca le donne sposate, le innamorate, le prostitute, le sole, le vedove, le lesbiche. Se mai ho visto un esempio completo di rappresentazione, signori, è in Simone de Beauvoir. 

Quello che fa è molto semplice: prende ogni singolo aspetto della vita di una donna e la mette al confronto con quella di un uomo. Emergono le inevitabili differenze, che ci sono e guai a negarle, ed emerge insieme ad essere la totale inadeguatezza delle differenze sociali. Nessun tipo di distinzione tra i generi giustifica la differenza delle vite, mai. E credetemi se vi dico che di esempi ne prende, e tanti. 


La lettura, fatta oggi, e quantomeno per me, è davvero impegnativa. Il primissimo motivo è che, e qui faccio un mea culpa, non tocco un testo filosofico dalla fine del liceo. Amavo tantissimo la materia ma per qualche motivo l'ho lasciata andare ed è un modo di affrontare il mondo e il pensiero a cui devo semplicemente riabituarmi. Per questo l'ho trovato a tratti impegnativo e ho dovuto forzarmi di andare avanti e resistere alla tentazione di abbandonarlo per riprenderlo in un momento più "favorevole". La seconda è che leggerlo da donna è una continua bastonata sui denti. Pagina, dopo pagina, dopo pagina, per ottocento benedette pagine, la narrazione di soprusi, violenze, sopraffazioni, calpestamenti, logora dentro come un veleno. Quello che la donna subisce (presente voluto) dal momento in cui nasce a quello in cui se ne va è una costante sberletta in faccia, e il libro ne ripercorre ogni aspetto. Non è certo un page turner, anzi. Ogni tanto serve una boccata d'aria di sollievo.


Se oggi ho il mio bloggettino in cui posso dire tutto quello che mi pare e piace e ho un lavoro e posso convivere senza essere sposata lo devo indubbiamente a tutte quelle che sono venute prima di me e ne sono grata, ma leggere un testo di 70 anni e vedere quanto i cambiamenti siano stati superficiali se vogliamo, è angosciante. Toglie il fiato. Il capitolo sull'aborto avrebbe potuto essere scritto ieri, è terrificante. 

Dopo una battaglia per arrivare alla fine, sono giunta alle conclusioni. In queste, e in generale nella parte finale del testo, SdB sostiene che le donne siano quello che sono per il modo in cui la società le ha formate, e che sia per questo compito della donna trascendere le limitazioni che le sono imposte. Sto ovviamente semplificando un concetto molto più ampio. Nel 2021 è chiaro che questa visione sia privilegiata (consapevolmente, de Beauvoir era socialista e conscia della sua posizione borghese e di potere) ed escludente, che a moltissime donne del mondo non è concesso di "prendersi i propri spazi" o imporsi. Il movimento di liberazione della donna non può passare solo attraverso la scelta, per quello che lo desiderano, di una relazione aperta o di un lavoro che renda autonome. Si tratta di un processo ben più ampio della nostra lussuosa sfera occidentale (dove abbiamo comunque tantissimo ancora da fare e spesso poche possibilità di farlo), e oggi per fortuna ne siamo più consapevoli.

Questo di certo non annulla il valore immenso del libro, che ha travalicato i decenni ed è arrivato a noi ancora spaventosamente attuale. Il femminismo moderno ha nei confronti di de Beauvoir un debito immenso, e dal libro questo è cristallino.


Quello che è altrettanto cristallino, però, è che Il secondo sesso non è una lettura che consiglio a cuor leggero, e che forse io stessa avrei dovuto affrontare preparandomi di più. È intenso, assorbe energie e pensieri, richiede una concentrazione e un'attenzione che io non sempre in questo periodo, e per tutti gli scorsi mesi, ho avuto. Mi sarebbe piaciuto studiarlo a scuola, leggerlo insieme a qualcuno che da più giovane mi accompagnasse attraverso le infinite cose che si imparano. 

Chissà che prima o poi non si arrivi anche a questo, nelle scuole italiane.

lunedì 11 gennaio 2021

La città dei vivi, Nicola Lagioia

12:16

 Quando un libro spopola sui social io di solito, con i residui di bastiancontraresimo che mi restano, lo evito. O almeno aspetto che si siano calmate le acque per poi farmi un'opinione mia. In questo caso non potevo aspettare, e il motivo è molto semplice: è un true crime, e se avete letto questo blog di recente sapete che è stata la mia passione rivelazione del 2020. 

Nello specifico, quella che racconta Lagioia è la storia dell'omicidio di Luca Varani, un ventitreenne romano, a opera di due giovani concittadini, Manuel Foffo e Marco Prato, nel novembre del 2016. Una storia molto vicina a noi ma che io conoscevo solo di sfuggita perché avevo già smesso di guardare i tg. 


Questa volta non farò uno spoiler alert, perché la storia è di dominio pubblico e tutto quello che dirò è già di dominio pubblico. Quello che faccio è uno sgradevole alert: ho odiato questo libro, e quando una cosa non mi piace provo ad argomentarla in modo freddo e razionale per non essere troppo odiosa, ma fallisco ogni volta. Mi dispiace se sarò antipatichella.




Via il dente via il dolore, dicono, quindi inizierei subito con quello che non mi è piaciuto, così ce lo leviamo dai piedi.

Non amo la scrittura di Lagioia. Nella prima parte del racconto usa quello stile (tipicamente italiano, credo possiamo ammetterlo) che io non posso tollerare, delle frasette brevi ad effetto. Un pochino lo stile facebook, se vogliamo.

Le emozioni, quelle belle.

Gli abbracci, quelli stretti.

Io ho un problema con questo modo di scrivere, mi fa venire una rabbia ingestibile. Leggerei solo Saramago per un mese, dopo, per disintossicarmi da questo abuso. Personalmente, poi, questo stile con un'eccesso di emotività non mi piace affatto quando usato per parlare di true crime, ma questo è un gusto mio. Infatti è anche il motivo per cui odio il podcast Demoni Urbani. Mi fa venire il latte alle ginocchia.

Tornando al libro, nella parte finale, invece, ricerca uno stile più 'giornalistico', soprattutto raccontando la parte processuale. Peccato che finisca sempre per emergere quella forzatura, quella pesante ricercatezza che a me fa proprio sbroccare. 


Un'altra cosa che non ho ben compreso è la costruzione del libro. Parte con una narrazione in terza persona, che ricostruisce passo passo gli eventi e i loro protagonisti. Più o meno a metà, poi, la narrazione è interrotta da inspiegabili testimonianze in prima persona di alcune delle persone collegate in vario modo ai nostri tre personaggi principali. Non parlano parenti vicini, fidanzati, ma sempre conoscenti, amici, ex colleghi, e infine gli altri ragazzi che durante i giorni di delirio e droga di Foffo e Prato erano stati in loro compagnia prima dell'arrivo di Varani. Forse queste ultime erano le uniche testimonianze con un senso, anche se il modo comunque non lo apprezzo.

Nella testa dell'autore, quale poteva essere lo scopo di farmi leggere mezza paginetta scritta in prima persona da una ragazza che ha fatto tre pompini a Foffo, esattamente? Perdonate il mio francese, ma il libro parla di pompini per un buon 40% del tempo, poi parliamo anche di questo.

Mi viene da pensare che volesse costruire una sorta di profilo degli assassini? Avrei voluto leggere l'opinione di esperti, allora, così ho solo perso il mio tempo. Come un ex collega abbia conosciuto Prato non mi serve saperlo. Non mi interessa. Quanto sesso orale abbia praticato alle persone non mi riguarda. Eppure ci sono pagine e pagine così. La mia prima critica è alle persone selezionate, la metà sono assolutamente irrilevanti. La seconda è al modo in cui le loro testimonianze sono riportate: una parte intera del racconto è così, poi si trancia via la parte in prima persona, grazie del vostro contributo, a mai più risentirci. Perché mai? Ricostruire tutto in modo fluido non era parte del tuo lavoro, Lagioia? 


La persona di Nicola Lagioia anche nel libro compare sgomitando ad un certo punto, quando inizia a parlare del duro lavoro svolto sul caso e della sua ossessione. Perché non cominci da subito ma spunti dopo un po' è per me un mistero.


Torniamo poi alle cose che l'autore sceglie di riportarci e con quale, ridicola, frequenza. 

Dopo la morte di Luca emergono voci insistenti su una sua presunta abitudine a prostituirsi. Il nostro autore ci tiene spesso a dire che lui non dà giudizi etici e che di sicuro questa cosa non giustificherebbe mai alcuna violenza, però ne parla in continuazione. Siamo sicuri che un giudizio non ci sia? Perché se davvero la questione fosse irrilevante allora nemmeno emergerebbe. O meglio, posso anche accettare che in un desiderio di completezza allora emerga velocemente anche quella faccenda lì, ma davvero Lagioia ne fa un argomento ricorrentissimo. Emerge dalle parole degli assassini, da quelle dei suoi amici, vengono persino riportate parola per parola le conversazioni messenger che la fidanzata di Luca aveva avuto con delle amiche del suo ragazzo. Ma esattamente, qual'è il fine? Posto che qualunque tipo di persona fosse stato Luca non avrebbe alcuna rilevanza in questo caso, visto che è stato ucciso praticamente per un colossale caso di sfiga, a cosa mi serve sapere cosa facesse del suo corpo quando era in vita? Che Luca fosse andato a casa di Foffo per vendersi o solo per partecipare ad un festino, non conta niente, non cambia niente. Eppure ci stiamo su delle ore. Il giudizio io lo vedo eccome, velato da quel fintissimo volerne parlare con dimestichezza che puzza di ipocrisia da casa mia a casa di Lagioia a Roma. 


C'è un intero capitolo del libro che parla dei media. Di come i social abbiano appreso la notizia dell'omicidio e della tipologia di commenti che potete facilmente immaginare, tutti quanti accuratamente riportati senza censurare neanche uno degli slur omofobi usati. Ovviamente, Lagioia usa con una frequenza ridicola la parola froc*o, ma la mette sempre in bocca agli altri, perché lui è troppo corretto per dirla, ma figuriamoci se l'ha bippata una volta sola. Guarda come sono cattivi gli altri che dicono le brutte parole scorrette, disse l'elegante autore che le parole non le sostituiva mai.

A me non sembra così difficile, non usare termini dalla spiccata connotazione negativa, eppure per un motivo o per un altro ci si sente sempre legittimati a farlo. 

Ovviamente, sui media la prima questione che salta all'occhio è che i due brutti pervertiti omosessuali hanno ucciso il povero giovane perché non voleva fare sesso con loro. Se siete sui social, sapete benissimo come funziona. La seconda è l'appartenenza politica e sociale delle famiglie coinvolte. Lagioia critica con la sua consueta superiorità, gli scimmioni dei social e i toni dei media, ma concentra una percentuale ridicola del suo romanzo (sì, parlo di percentuali perché leggo in digitale) a parlarci di quando e come e dove e con chi Prato facesse sesso. Di tutte le persone apparentemente manipolate ad avere rapporti sessuali di varia natura con lui. La sua ossessione per la sessualità dei due colpevoli è francamente ridicola e alla lunga diventa fastidiosa. Lunghe, lunghissime parti in cui è ritenuto necessario raccontarci che i due avevano fatto sesso in quel modo piuttosto che in quell'altro, e mai un intervento di un esperto che mi spiegasse perché questa cosa era considerata così rilevante, come vi dicevo più su. Cosa stai cercando di fare? Di farmi credere che raccontando tutto tutto tutto della sua vita (cosa che non fa, anzi sceglie bene su cosa portare la sua attenzione) io poi sia in grado di fargli un ritratto psicologico così approfondito da comprendere cosa sia successo la sera che Luca è morto? La maggior parte dei lettori non ha le competenze per fare diagnosi, perché non siamo tutti medici né terapeuti, e soprattutto un esperto non lo farebbe mai dalle pagine di un libro quindi davvero non riesco a capire. 

Ma per quanto riguarda la parte politica e sociale? Pensate che riemerga mai più dal romanzo? Ma no, chiaro. Tutto superficiale, tranne quello che superficiale lo è davvero.


Il libro si legge molto velocemente, e se siete già interessati al true crime ancora di più, però non è questo il modo che piace a me. In qualche modo, però, sono arrivata alla fine, dopo inspiegabili capitoli in cui parliamo di traslochi della famiglia Lagioia (vi ricordate che all'inizio manco c'era? Ecco, ora parliamo dei suoi traslochi, bah.), e alla fine c'è la sola parte positiva del libro.

Marco Prato si toglie la vita il giorno prima del processo. Una persona che si toglie la vita non è mai una vittoria per nessuno, e in questo caso le cose da dire sarebbero tante. Prato era una persona che ci viene descritta come problematica da sempre, il suo suicidio non può e non deve passare come una cosa improvvisa. C'erano avvisaglie da sempre. La cosa su cui sceglie di soffermarsi Lagioia, però, è la situazione carceraria. Prato aveva iniziato il suo percorso carcerario a Regina Coeli, una realtà che era stata in grado di sfruttare le sue capacità, di tenerlo attivo da un punto di vista culturale e sociale. Viene poi trasferito per due volte nel carcere di Velletri, molto meno accogliente, per così dire. La prima volta gli avvocati erano riusciti a farlo riportare a Regina Coeli, la seconda ne è uscito morto. Il numero dei suicidi nelle carceri italiane è sconvolgente, ed è importante che se parli in un libro così popolare. La situazione può cambiare ma nessuno fa niente per farlo. Non credo che da domani cambierà qualcosa, ma ogni passo avanti è importante e ho molto apprezzato che Lagioia si sia così interessato alla situazione. Tutta la parte finale è dedicata a questo, mi ha fatto molto piacere notarlo. 


Per quanto riguarda il resto, concedetemi una paraculatina finale perché mi sento in colpa a dire cose negative: scegliere di parlare di true crime è difficile, perché quelle persone lì, quei nomi che leggiamo sulle nostre pagine sono persone reali che stanno soffrendo cose che non possiamo nemmeno immaginare. Servono un equilibrio delicatissimo, una sensibilità rara. Io non credo di averli, anche se il mio podcastino investigativo me lo sogno la notte. Credo che Lagioia si sia sinceramente appassionato al caso in modo onesto e disinteressato, credo solo non sia stato in grado di narrarlo in un modo che io trovo adeguato.


Vado a consolarmi con la sesta idiotissima stagione di Brooklyn99, che è finalmente arrivata su Netflix.

lunedì 9 novembre 2020

Menzogna e sortilegio, Elsa Morante

18:39

 Da quanto tempo che non parlo di libri sul blog! Vediamo se sono ancora capace.

Consueta intro di fatti miei: io e la mia amica Martina ci siamo rese conto che, pur leggendo fino a perdere la vista, avevamo entrambe una vergognosa lacuna in tutto quello che riguarda la letteratura italiana del '900. Quindi, armate di pennarelli colorati e voglia di rimetterci a studiare, ci siamo create un mini gruppo di lettura composto solo da me medesima e lei nel quale ci leggeremo, in modi e tempi assolutamente casuali e caotici come siamo noi, i classici che ci mancano. Partiremo con la sacra trinità composta da Morante - Moravia - Calvino e proseguiremo dove ci condurranno i cuori.

Siamo partite, leggere come sempre, con le 700 pagine che hanno segnato l'esordio di Morante.




Brevissimo ma necessario accenno di trama perché, come è risaputo, le autrici donne a scuola non si studiano e se non ci si avvicina da sé non si sa manco di cosa hanno scritto. 

La narratrice è Elisa, e quella che ci racconta è la storia della sua famiglia e di come lei, rimasta sola, sia finita a vivere da una prostituta che l'ha accudita come una figlia. Ripercorriamo le vicende partendo da nonna Cesira, attraversando mamma Anna, il suo primo amore Edoardo e il futuro marito, papà di Elisa, Francesco. 


DA QUI SPOILER

Sapevo che avrei amato questo libro, nonostante della Morante avessi letto solo L'isola di Arturo, perché c'è una cosa di lei che stanno dicendo tutti: è piena di elementi in comune con Ferrante. Chi è una delle mie autrici preferite della storia del mondo? Ferrante, esatto. Sapevo già che questo tipo di storie parlavano dritto ai miei sentimenti e che c'erano anche grandi probabilità che avrei sofferto come un cane. 

Spoiler: ho effettivamente sofferto come un cane.

Posto che non sta a me dirvi l'importanza, nella letteratura del '900, di Morante e di un libro come Menzogna e sortilegio, parliamo di come una lettura del genere può segnare il singolo lettore più che tutta la letteratura successiva. Forse il fatto che oggi Ferrante pianti i picchetti sulle classifiche e non si schiodi da lì per settimane qualcosa, comunque, ce lo dice. 


Quando si parla di saghe familiari si parla di una e si parla di tutte, soprattutto quando lo si fa come lo fa Morante qui. L'approfondimento con cui i suoi personaggi ci sono presentati è tanto dettagliato, tanto accurato, che riesce quasi difficile credere che siano inventati. Non c'è clemenza nel ritrarre queste persone, non si indora mai la pillola: sono persone difficili, che vengono da contesti difficili. Non c'è mai distinzione di classe, in questo. Laddove Anna e Francesco vengono da realtà umili con tutto quello che questo comporta, Edoardo viene invece da una famiglia ricchissima, ed è tanto difficile quanto gli altri. La differenza principale sta nella possibilità di scelta: Edoardo ha avuto modo di fare la vita che desiderava, di muoversi nel mondo a suo piacimento, di fare delle persone quello che più gli aggradava, sempre. Anna e Francesco, come Cesira prima di loro, sono stati costretti ad una vita di scelte. Di studi, di relazioni, di lavori. Nel loro caso sono sempre stati i soldi il pilota della vita: mollare gli studi per andare a lavorare, sposare una persona detestata per avere almeno da mangiare, vivere con persone che non si amano per avere un tetto sopra la testa. 

Pur non giudicando mai attivamente i propri personaggi, Morante riesce a mostrare come sia proprio il rapporto con la povertà a distinguerli uno dall'altro. La sporca, degradata, dignità di Damiano, padre di Francesco, e lo spirito di sacrificio pieno di amore di Alessandra, la madre, si contrappongono alla vile inettitudine di Anna, che rifiuta di dare qualsiasi contributo economico per contribuire al sostentamento della famiglia, ripudiando l'idea del lavoro fin dall'infanzia. Eppure, Damiano viene ignorato, umiliato, lasciato, e Alessandra abbandonata, mentre Anna è destinataria di un amore cieco e disperato, proprio da parte delle persone che odia di più.

In ognuno di loro tutti abbiamo qualcuno da riconoscere. Un dettaglio, un modo di dire, un atteggiamento. Sono così comuni eppure così rari, così vivi eppure così lontani nel tempo, che sta a noi poi applicarli in quello che conosciamo. E una volta fatto, sono ovunque. 

Quello che fa Morante è mostrarceli così come sono. Elisa è un narratore non affidabile per forza di cose, perché parla di cose troppo care a lei per essere sempre completamente oggettiva, ma è talmente lucida su cosa influenzi il suo giudizio che alla fine il ritratto che fa di tutti ne esce comunque onesto. 

Nei giorni in cui leggevo la parte sull'infanzia e la gioventù di Francesco sono stata parecchio messa alla prova. Non entrerò più di tanto nei fatti miei dei quali può anche giustamente fregarvene molto poco, ma ha colpito in punti così chirurgicamente precisi, facendo ritratti a me così familiari di una situazione umile in cui si cerca disperatamente di restare dignitosi che a volte ho dovuto accantonare la lettura. Quel tipo di distanza che Elisa ha dovuto prendere per analizzare le cose io ancora non sono pronta a prendermela. 


Per cui sì, penso sia evidente che un libro del genere vada letto e studiato a scuola. Da singola lettrice, però, mi sento di consigliarvelo con cautela: ci potreste trovare da un momento all'altro la vostra vita dentro. 

martedì 21 luglio 2020

I libri che ho letto in spiaggia

11:08
La consueta infarinata di fatti miei che apre ogni post. Io amo l'estate, il caldo, il sole fino alle 9, ma soprattutto amo il mare. Mi fa paura come tutte le cose che mi piacciono di più, ma quando non lo vedo per qualche mese di fila mi manca da morire. Perché vivere una vita del cavolo in una società orrenda ed essere pure costretti a farlo in un posto orribile quando potrei avere la stessa vita ma almeno essere in paradiso? Ho lasciato il cuore in Puglia, durante una cena sulla spiaggia, al tramonto, dove mi sono sentita felice come pochissime altre volte nella mia vita.
Mi dovete scusare, sono in sindrome da rientro, ho il mal di Puglia.
Oltre ad un mare magnifico, paesaggi meravigliosi, cibo che non ci si crede e tramonti che belli così non li ho mai visti, la Puglia mi ha regalato il tempo di leggere, che a casa non è mai quanto vorrei.
Vi racconto quindi cosa mi sono goduta in spiaggia, con il vento che mi agitava i capelli e il profumo della crema solare che mi teneva compagnia.
(La smetto, giuro, sto solo soffrendo)



Febbre, di Jonathan Bazzi.

Uno dei finalisti dello Strega di quest anno è spopolato su Instagram, e mi aveva messo curiosità.
Si tratta dell'autobiografia dell'autore, un giovane di Rozzano. 
Jonathan non sta bene: ha questa antipatica febbriciattola che lo accompagna da troppo tempo e fatica a risalire alla causa. Lo conosciamo adulto, che deve gestire questa rogna, ma nel frattempo incontriamo anche il Jonathan bambino, cresciuto nelle case popolari di Rozzano. Con il tempo impariamo a conoscere lui, la sua famiglia, il suo compagno e soprattutto il percorso che lo ha portato ad essere l'uomo che ci racconta la sua storia. 
Di Jonathan Bazzi non amo lo stile.
Quello un po' drammatico così.
Che va a capo dopo ogni punto perché le frasi sono piene di pathos.
Pathos, quello vero.
Ecco, alla quarta mi comincia un pochino a ballare l'occhio. Lo leggo spesso, questo modo di scrivere, anche banalmente nei post di facebook dei poeti wannabe, e non mi piace mai. A maggior ragione non mi piace qua perché la storia mi ha preso immediatamente, e lo ha fatto perché l'ho sentita mia. Ogni volta che Bazzi parlava del suo passato io rivedevo il mio: le case popolari, le famiglie disfunzionali, il chiasso, le urla, il disagio. Il tutto è descritto in un modo sincero, reale. Mi ha colpito nei miei punti deboli e soprattutto lo ha fatto con la maturità di chi ormai queste cose le sa guardare da una giusta distanza. Questo ti dà modo di essere estremamente lucido nel raccontare anche cose che per me sono ancora nebulose di caos. L'ho trovato efficace, onesto e intenso. 
La storia del Jonathan adulto invece si allontana dalla mia, ma non per questo l'ho apprezzata meno. Il percorso vero la verità è difficile, e spesso le risposte trovate lo sono ancora di più, ma ognuno le affronta con un modo tutto suo, e quello di Bazzi è ammirevole.

Miden, di Veronica Raimo.

Anche questo mi è arrivato dall'Instagram, perché per un periodo ne avevano parlato diversi profili che seguo. Miden è una cittadina dell'orrore travestita da sogno. Il Sogno di Miden è quello di una realtà senza problemi, senza intoppi, con smaglianti sorrisi e mai un disguido. Non ci sono avvocati, a Miden: se un cittadino viene accusato di qualcosa di sbagliato una giuria composta dai cittadini valuta quello che i suoi conoscenti dicono di lui e sulla base di queste testimonianze si giudica se un individuo sia o meno degno di restare in questo luogo incantato. 
Per questo, quando il professore (unico modo in cui viene citato nel romanzo) viene accusato da una studentessa di violenza sessuale, quello che si apre a suo carico è un processo molto particolare, nel quale la sua stessa compagna sarà tenuta a dire la sua. 
Quello che si apre di fronte a noi non è solo il racconto di una società in cui ai cittadini è richiesto di raggiungere e mantenere un determinato livello di etica e di mantenersi degni del luogo, ma anche la storia di come un evento violento (sia esso reale o meno) colpisca la vittima, il carnefice ma anche tutte le persone che stanno loro intorno. La compagna del professore è estremamente turbata da quello che ha scoperto ma non solo nel modo a cui verrebbe più naturale pensare. Il pensiero del compagno che fa sesso con un'altra la scuote, la risveglia da un torpore, la distrae dal fatto principale: quel sesso non era completamente consensuale. Il pover'uomo non aveva capito, non aveva colto, che stava esercitando il suo potere su una persona a lui gerarchicamente inferiore, non gli era manco passato per l'anticamera.
Forse il libro esplora troppo poco questa dinamica di potere, che invece è fondamentale affrontare, e si concentra di più sulle conseguenze che la violenza ha sul carnefice piuttosto che sulla vittima, ma ogni cosa che parla dell'argomento da queste parti è benaccetta: che se ne parli, e che se ne parli sempre, da ogni prospettiva possibile.

I fantasmi di Rowan Oak, di William Faulkner.

Faulkner è uno di quegli autori a cui non mi sono mai avvicinata per soggezione. Ci sono cose che spesso evito di fare per la paura di non comprenderle come vorrei e finisce che giro in tondo non concludendo nulla. Però alla parola fantasmi non resisto, e ho fatto bene a sbloccarmi.
Quelli racchiusi in questa raccolta sono racconti senza tempo, di quelli che si raccontano intorno al fuoco mentre i marshmallow si bruciacchiano tra le fiamme. Si parla di famiglie del sud (degli Stati Uniti, che è ovvio ma non si sa mai), di leggende, di bambini curiosi. Leggo in giro che questo è niente rispetto ai capolavori dell'autore, ma di sicuro è una raccolta deliziosa, gotica, fiabesca.
Si legge in un pomeriggio.

Menzione speciale.

La prima cosa che avevo caricato sul kindle per le vacanze in realtà era I giorni dell'abbandono, della mia adorata Elena Ferrante. Non è arrivato in vacanza, perché l'ho letto nel weekend prima della partenza e ne sono uscita con il cuore spezzato. L'abbandono è quello Olga subisce quando il marito la lascia per un'altra. La storia più vecchia del mondo? Sì, ma è qui che sta il talento della Ferrante. Il suo ritrarre l'intimità delle persone, senza paura che risultino poco sopportabili o fastidiose, è spiazzante. Entra nel cuore dei suoi personaggi con una tale profondità che stupisce non parli sempre di se stessa. Sono persone così vere, per nulla costruite per piacerci ma anzi così forti nel loro essere quasi sgradevoli che ci costringono a chiederci quanto di noi ci sia, in quel ritratto così sincero.
Ora, che Ferrante sia una donna è chiaro perché ha un odio per gli uomini che è lampante, ma se così non fosse non farei fatica a credere che il suo sia uno pseudonimo per Domenico Starnone, perché il ritratto che entrambi fanno delle relazioni sentimentali è così cinico che dopo averli letti mi serve un po' di detox.
Meravigliosi entrambi, ma lei ha qualcosa in più, la trovo sempre eccezionale.

Vorrei dire che dopo questa sequela di letture che quantomeno per temi si sono rivelate tutte piuttosto intense mi sono presa un periodo per qualcosa di più felice e invece no, sto leggendo Il buio oltre la siepe, perché qua felici mai.


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