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martedì 31 maggio 2016

Non solo cinema : Kobane Calling

16:45
Per tutta la vita ho pensato che io e i fumetti fossimo due rette parallele destinate ad ignorarsi con sufficienza. Se poi i fumetti in questione riguardano supereroi di qualsiasi forma e colore, allora CIAO, lontani da me.
La verità è che di fumetti ne leggo un po', ma devono essere come dico io. È stata la lettura di Kobane Calling a farmi intuire il collegamento tra le mie letture disegnate. Io leggo solo fumetti con un cuore grande. I Peanuts, Mafalda, Calvin and Hobbes, Sandman, Dylan Dog, quel lavorone di Locke and Key, mi sto avvicinando ad Alan Moore. . . 
Voglio cose dolcemente malinconiche, voglio case fumose, bambini brillanti e sfigatelli, voglio che mi tremino le mani dalla passione che trasuda da quello che sto leggendo, voglio menti geniali, voglio emozionarmi, e piangere poi ridere poi piangere ancora poi sorridere tra le lacrime.


Kobane Calling è la quintessenza di quello che ho sempre cercato. Ho sempre saputo che sarebbe stato così, dal momento in cui ho letto su Internazionale il primo estratto di quello che è, per me, il punto più alto toccato finora dall'incredibile Michele Rech, noto al web come Zerocalcare. 
Innamorata fino al midollo di lui da quando ho scoperto il suo blog, ho avuto la certezza che il mio amore fosse ben riposto dopo averlo sentito fare due chiacchiere allo scorso Festivaletteratura di Mantova. 
Quando lo senti parlare ha l'aria stralunata. io me lo sono immaginata in un'altra epoca come uno di quegli artisti folli con i capelli ingestibili e migliaia di fogli sparsi per il tavolo, uno di quelli costantemente insoddisfatti, che appallottolano la carta e sbuffano. Stava lì, a rispondere alle domande di un gruppo di ragazzi, con l'aria di chi non aveva la più pallida idea del perché fosse lì e soprattutto del perché ci fossero così tante persone ad ascoltarlo parlare. Niente di quello che fa o dice è a scopo di notorietà. (Non potrebbenemmeno permettersi di essere così chiaramente politicamente schierato se così fosse)
Questa scarsa considerazione di se stesso, questo suo sentirsi inadeguato, è onnipresente nei suoi lavori, è la spinta principale della sua (auto)ironia, è quello che me lo fa guardare con ancora più apprezzamento. Quanto avrei voluto abbracciarlo, ogni volta che in KC parla di se stesso come di un idiota, dello scemo del villaggio! Quanto vorrei che sapesse che nel mio mondo ideale le persone hanno tutte la sua passione e il suo cuore.


Sentir parlare Zerocalcare è un'esperienza: un secondo prima è lì impacciato e con l'accento romano che francamente è il più buffo d'Italia e un attimo dopo il suo tono cambia, quello che sembrava un ragazzetto goffo si trasforma in un uomo pieno di opinioni nette, di capacità di analisi della società e delle persone che fa invidia, di esperienze, di storie da raccontare.


Questa, in particolare, è la storia di due viaggi. Il primo, nel 2014, nei pressi di Kobane, la quasi mitologica città nota per essere il cuore della resistenza al tanto chiacchierato ISIS, la città che ha resistito, la città che si è liberata. Lì Michele ha collaborato ad azioni umanitarie, portando cibo e medicinali. L'anno dopo, invece, decide di tornare nella zona dell'utopica regione del Rojava, ma in un viaggio diverso. Stavolta incontra (e ci racconta) i volti di chi per questa guerra si sta preparando, degli uomini e delle donne che sono scappati dal regime turco, racconta la motivazione di chi da quella guerra è apparentemente lontano (sì, parlo di lui stesso e di tutte le persone che condividono con lui questo viaggio e questo sogno) ma che ci si sente vicino, con il cuore e con la mente, e che quindi decide di andare vicino con il corpo, per comprendere un po' di più.


E sarebbe facile parlare di guerra e morti e orrore e sangue usando quei pipponi retorici che tanto ci piacciono, che commuovono le gienti e che ci fanno sentire così distanti, così fortunati nella sicurezza dei nostri paeselli. Ma Zerocalcare è più intelligente di così, lui ti racconta di come le guerrigliere del PKK quando sono insieme si divertano, scherzino insieme, di quanto materna sia la donna che le addestra, e tu le senti vicine, le senti tue amiche, poi ti racconta che la più piccola di loro si trova lì per scappare da un matrimonio combinato con un uomo che la violentava e tu torni piccola piccola, umile, abbassi la testa, quasi colpevole per la fortuna sfacciata che hai avuto a nascere da questo lato del Mediterraneo.
E lui, per tutto il tempo, si è sentito così: in soggezione, lo scemo del villaggio, appunto. Perché hai davanti uomini e donne che sembrano tanto assomigliare a te e che invece hanno un fardello sulle spalle incredibile, e che nonostante questo sorridono.
Con la sua dolcissima ironia Zerocalcare mi ha conquistato per l'ennesima volta, scoccando splendide frecciatine al sistema dei media italiani, al modo in cui il mondo curdo ci è presentato, al modo in cui lo stesso ISIS ci è presentato, al modo in cui parliamo parliamo parliamo e poi non sappiamo un bel cdn (cit).
Qua non siamo più dalle parti del (comunque bellissimo) Armadillo, nè nelle tavole del blog, nè dei polpi alla gola. Qua siamo più su, nella consacrazione di un talento vero, nato solo dal cuore grande di uno a cui piace fare i disegnetti. 


Vorrei che gli insegnanti leggessero Zerocalcare nelle scuole, che i tg lo invitassero a parlare (ma tanto mica ci andrebbe), che il suo messaggio passasse forte e chiaro a chiunque lo incroci per caso.
Lui mica propone soluzioni, non le ha. Ma invita a conoscere. Io manco sapevo cosa fosse, il PKK. E manco YPG o YPJ. Sono quelle persone che, mentre noi creiamo hashtag per commemorare i morti di Parigi e Bruxelles per mano dell'ISIS, questo benedetto Daesh lo stanno combattendo per davvero. 
Oggi, grazie a Calcare, io so che queste persone esistono, che viviamo la nostra serena vita perché qualcuno sta rischiando quotidianamente la sua. 
Per poi essere classificato nell'elenco delle associazioni terroristiche dall'ONU.
Ma questa, per ora, è un'altra storia.

Comprate i libri di Zerocalcare, supportate i giovani pieni di talento e cuore e cervello e disegnetti buffi dai richiami 80s. 
Lui ci fa i soldi, ma voi guadagnerete molto di più.

sabato 5 marzo 2016

Non solo cinema: Storia di una vedova

14:00
Ho incontrato JCO per la prima volta nell'amatissima biblioteca del paese. (Amatele ste biblioteche, sono i posti più belli del mondo. Più delle librerie)
Appoggiato su un tavolo stava un libro rosa barbie. Sulla copertina stava una bambina, truccata come quelle bimbe degli inquietanti concorsi di bellezza. (O era una bambola con quelle fattezze? Non mi ricordo e non voglio googlare, vado a memoria).
Ora di quel libro (Sorella, mio unico amore) ricordo poco e niente, vorrei riprenderlo, ma non è questo a importarci ora.
Il succo è che da quel romanzo in poi la Oates è stata la linea parallela che ha accompagnato quella della mia vita.


Storia di una vedova non è un suo romanzo, è un memorial, lo dice il sottotitolo. Racconta, come è facilmente intuibile dal titolo, del momento in cui suo marito è mancato. Dagli ultimi giorni in ospedale fino al dopo, la sua sopravvivenza.

Andiamo con ordine.
Io sono profondamente innamorata. Ho provato con tutte le mie forze ad ostacolare questo problema sul nascere, ma quando poi il sentimento è partito (perché parte) l'ha fatto con un rinculo pazzesco, lasciandomi indolenzita e piena di botte.
Non sono una di quella che vuole le relazioni da film, tutte scombussolate ma romanticissimissime, con i piatti lanciati e poi le scene commoventi sotto la pioggia.
Io amo tantissimo il mio rapporto sano, reale, ma profondo, in cui ci sono giorni che dopo anni il bisogno di un suo abbraccio ancora mi cava il fiato. Amo questo modo di vivere le cose più pacato. Le macchiette da film romantico non mi interessano e non hanno alcun fascino su di me.
Ho al mio fianco una persona, come ce l'hanno altre milioni di persone. È con me quando ho giorni bellissimi, quando ho giornate mediocri, o quando ho momenti terribili, o ancora quando piango a dirotto, per giorni interi, perché un romanzo mi sta spezzando il cuore.
Ed è questo il caso.

In seicento pagine (che pesano come cinquemila), JCO fa un lavoro di esplorazione della sofferenza che credo essere senza precedenti.
Sono quasi certa che nessuno l'abbia costretta usando la violenza a scrivere questo libro. La profondità a cui si va sarà stata sicuramente una sua scelta, avrà ovviamente deciso lei cosa e quanto esporre.
Eppure, per tutto il tempo, ho sentito che era sbagliato. Che non avrei dovuto stare lì, che avrei dovuto lasciarla sola, nella sua sconfinata sofferenza, che mi stavo intromettendo in qualcosa di troppo grande e troppo intimo, che stavo spiando attraverso il buco della serratura una donna piangente.
Perché questo infinito memorial è questo: ogni parola, ogni sillaba, persino la punteggiatura, sono un'infinito - ma composto e dignitosissimo - pianto disperato.
È la mancanza di chi riempiva ogni cosa, che lascia quindi tutto vuoto. Ed è qui che mi ricollego con la mia supercheesy introduzione. Joyce e Raymond hanno vissuto insieme ogni giorno della loro vita per anni, e da quello che traspare dalle parole di lei era proprio una relazione di quelle che amo. Quelli di lui erano gli occhi che guardava la mattina appena sveglia, era sua la bocca per cui cucinava, erano sue le mani con cui ha costruito una carriera. E, all'improvviso, niente di tutto questo c'era più. Il solo pensiero (che durante la lettura ho avuto troppo spesso) di una simile eventualità mi fa saltare un battito.

Inizia un profondo viaggio in un insensato senso di colpa, in un'autoaccusa (che ai nostri occhi sembra assurda) di egoismo che è talmente dura da non riuscire nemmeno più a commuovere. Ray non può mangiare, non mangio nemmeno io. Ray non può più fare questo, non è giusto che lo faccia io. Dio, è insostenibile. È durissimo vederla farsi coraggio, per la voglia di non pesare, e poi vederla crollare. Così come è difficile leggere le sue mail (che esposizione totale, darci in pasto le parole che aveva riservato agli Amici), e sentirla parlare di se stessa in terza persona.
Dall'apertura più totale, quella che usiamo quando parliamo con i nostri compagni di vita, all'uscita da se stessa: Joyce diventa la futura vedova prima, la vedova dopo, e questo passaggio ci è sbattuto in faccia con la delicatezza che la contraddistingue, riuscendo comunque a colpirci durissimo, e noi non possiamo che osservarlo impossibilitati a fare alcunché.

Se cercate un libro commovente, qualche lacrimuccia facile, cercate altrove.
Questo è dolore nella sua forma più pura, spogliato di qualsiasi romanticismo, di qualsiasi voglia di compiacere.
E fa un male cane.





giovedì 10 dicembre 2015

Non solo cinema: Annientamento

08:00
Se siete qua significa che avete una connessione Internet, e avere una connessione Internet di questi tempi è la sola condizione necessaria per sapere cosa sia Annientamento.


Per chiunque sia appena tornato sulla Terra da un viaggio interplanetario: trattasi del primo libro della trilogia del momento, quella dell'Area X, frutto del lavoro del buon Jeff Vandermeer, che se amate scrivere come moi conoscerete per quell'incanto del Wonderbook. Pare essere la trilogia che dà nuova veste al new weird, la rivoluzione, il culto.

Sempre se siete appena tornati dal viaggio di cui sopra vorrete sapere di cosa si parla: si parla di quattro donne, senza nome ma identificate solo tramite il loro lavoro, che partono per una spedizione all'interno di una particolare zona degli Stati Uniti, la famigerata Area X. Pare che questa Area sia una zona particolare, in cui la natura ha ripreso il sopravvento e in cui si verificano fenomeni poco chiari. Le precedenti spedizioni sono state un fallimento, nessuno è tornato e chi lo ha fatto era meglio se ne stava dov'era. Noi affrontiamo la dodicesima, la prima ad essere composta da una squadra di sole donne.

Io sono convinta che Vandermeer abbia una mente di quelle a cui guardo con un misto di invidia marcissima e sconfinata ammirazione. Lo pensavo sfogliando il Wonderbook e lo penso avendo concluso il primo volume di questa benedetta trilogia di cui non me ne poteva fregare di meno fino a quando il web si è messo in testa che la dovevamo amare tutti.

Io sono una lettrice veloce, mangio i libri e non c'è alimento che mi sazi di più.
Eppure, queste 180 paginette mi hanno portato via un sacco di tempo. Perché all'inizio ho DETESTATO Annientamento con tutte le mie forze.
Poi ho realizzato che non era il libro ad essere il destinatario del mio odio, quanto quella viscida, algida, supponente e presuntuosa della sua protagonista.
Ho faticato a proseguire nella lettura perché tutte queste pagine sono in prima persona. Sono considerazioni personali e riflessioni di questa sublime stronzetta.
Resa assolutamente umanissima e tridimensionale dalle capacità del suo creatore, ma detestabile come poche.

Bisogna essere disposti a passarci su. Accettando che lei è così e facendosela andare bene, si passa a vedere tutto quello che c'è dietro, e quello che c'è dietro, in quanto frutto della mente di cui sopra, non poteva che essere un lavoro incredibile.
Si tratta 'semplicemente' di sana ma atroce inquietudine, quella che pervade completamente e lascia annientati, appunto.
Con quella brutta cretina di una biologa entriamo in un luogo ostile e di cui non sappiamo nulla, non sappiamo niente di quello che ci può succedere, nè del modo in cui ci può accadere. L'Area X è un mistero di quelli completi e totalizzanti: ci vai (volontariamente, per i motivi più disparati) ignorando quasi tutto di quello che la riguarda e nel giro di pochissimo tempo ti renderai conto che anche quel poco che sai è falso. Non sai niente nemmeno di chi ti circonda, chi sia o meno meritevole della fiducia che, volente o nolente, in una situazione simile sei costretto a dare. E, a loro volta, gli altri non sanno niente di te, e tu hai delle importanti limitazioni su quello che puoi o vuoi dire.

La biologa è vittima da qualsiasi punto di vista: è vittima dell'Area, che ha su di lei un'influenza che non si può controllare, è vittima della psicologa che ha il ruolo grossomodo di leader della missione, è vittima della misteriosa organizzazione che studia l'Area, è vittima delle proprie radicali e infrangibili convinzioni. Ogni passo compiuto in una certa direzione potrebbe essere l'ultimo, ogni scoperta, ogni volta che sembra di stare andando nella direzione giusta, ci si sta avvicinando invece sempre più al pericolo.
Un pericolo senza faccia, senza nome. Perché non si tratta solo di una creatura, di un mostro che, in quanto reale e singolo, si può sempre (in potenza) sconfiggere. Qui il problema è che il pericolo è ovunque e non si ha la più pallida idea di cosa sia e di cosa possa causare.
È paralizzante.

Il mio amico Jeff va letto.
Se non altro per sapere se questa volta l'amore collettivo del web è stato ben incanalato.
E per me, nonostante tutto, sì.

giovedì 18 giugno 2015

Non solo cinema: Julia

08:42
QUALCHE SPOILER PERCHE' SONO UN'INCAPACE

Fino a qualche tempo fa ero convinta che Peter Straub fosse il vicino di casa sfigatello di Stephen King, il quale mosso a compassione aveva aggiunto il nome dell'amico accanto al suo in certi titoli.
Invece no!
Peter Straub ha grossomodo quella faccia qui:


Oltre a teneri occhialini rossi cum coppola, il signor Straub ha anche una gran bella penna con cui scrive tanti romanzi horror.
Si è avvicinato al mondo del fantastico con questo breve Julia, nel quale dà al romanzo il titolo della sua protagonista.

Julia, appunto, è una donna che, in seguito alla perdita in circostanze tragiche della figlia Kate, decide di lasciare il marito Magnus. Compra una nuova casa, nella quale però accadono strani eventi che la portano a indagare sul passato dell'abitazione e dei suoi precedenti inquilini.


Non mi ha comprata da subito, il libretto di Straub, anzi.
Proseguendo, però, la realizzazione che niente stava andando come avrei pensato mi ha fatto completamente cambiare idea.
Ma andiamo per gradi.
Julia scappa dal marito perché lo ritiene responsabile della dipartita della piccola Kate. Fin dalle prime pagine, però, frasi accennate e indizi appena mostrati ci convincono che la colpa sia in realtà attribuibile alla madre.
E io, dall'alto della mia somma ignoranza e della mia incapacità di aspettare di finire un libro prima di giudicarlo, pensavo: 'Ma perché me lo dici ora?'

E CERTO che me lo diceva subito, perché l'oblio che ha colpito la nostra protagonista è solo il primo sintomo di un disagio che crescerà in modo esponenziale fin dalle prime pagine del romanzo. E perché la morte della figlia non ha alcuna rilevanza ai fini della trama, se non l'essere il motivo scatenante della sua fuga.

Questo perché, ad un certo punto, arrivano i fantasmi.
O meglio, arriva IL fantasma.
Che si palesa nei modi più convenzionali possibili: apparizioni allo specchio, rumori improvvisi, stanze caldissime, acqua del rubinetto disgustosa (vi dice niente Casper?). . .
Julia, in preda al dolore, si convince che sia la figlia.
Non ci vorrà molto a comprendere che ci troviamo di fronte ad un doppelganger perfetto che andrebbe incorniciato.

Quello che poi è ancora più affascinante è che le medesime apparizioni potrebbero essere tranquillamente da parte di umani: Magnus sta controllando a vista la moglie, entra in casa e volutamente lascia disordine e fa rumore per spaventarla.
Lei ne è consapevole, ma abbiamo tra le mani una donna di una fragilità estrema: pur sapendo a chi attribuire il vaso di fiori distrutto, è convintissima della presenza di un fantasma. Dimentica di lavarsi, di mangiare, la sua stessa salute passa in secondo piano rispetto alla necessità di scoprire cosa sia successo in quella casa e perché quel fantasma ce l'abbia proprio con lei.

Oltre all'interessante questione dell'entità e della precedente proprietaria, a farmi capire quanto svagliavo a sottovalutare il povero Peter sono stati i personaggi secondari.
Una medium terrorizzata, per esempio. Che pare una baggianata, ma è fin troppo facile ritrarle come donne esperte che ne hanno viste di ogni e ormai non hanno paura di niente.
Un marito potente, con una personalità dominatrice, ma anch'esso pieno di sofferenza e che, nel momento adeguato, riesce a convincersi che qualcosa di sovrannaturale ci sia davvero.
Mark, il cognato, che si rivela completamente diverso da quanto credevamo, e infine Lily, uno dei motivi per cui questo libro è così grande. Lei e il suo essere così viscida, una donna subdola e opportunista, legata in modo morboso e quasi lannisteriano al fratello Magnus.


Una discesa nemmeno troppo lenta verso l'inferno personale di Julia, in cui siamo trascinati insieme a lei, in modo apparentemente semplice e che in realtà si rivela efficace e coinvolgente.
Scusa, Peter, se ti ho sottovalutato.

mercoledì 18 marzo 2015

Non solo cinema: Abbiamo sempre vissuto nel castello.

09:35
Ogni recensione o pseudo tale di questo libro che si trova in giro si apre raccontando che il buon Stephen King ha dedicato alla signora Jackson il suo libro L'incendiaria, dicendo piu' o meno cosi':
A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce.
 Ebbene, un motivo c'e', se tutti finiamo a tirare in ballo il Re, per descrivere la tenera Shirley Jackson. Perche' lui ha sempre la capacita' di dare la perfetta definizione a qualsiasi cosa, nel modo apparentemente piu' semplice e banale possibile. E questa volta non e' da meno, perche' mentre si sfoglia Abbiamo sempre vissuto nel castello la sensazione e' proprio di leggerezza (solo apparente, non fatevi ingannare), di pacatezza, sembra DAVVERO di stare leggendo qualcuno talmente in grado di fare quello che fa da non avere bisogno di imporsi sbraitando, di sgomitare per colpire.
Finisce per colpire comunque, e quando il colpo e' inaspettato la botta e' piu' forte.

In seguito ad una terribile tragedia familiare, le due sorelle Merricat e Constance rimangono a vivere sole nella tenuta di famiglia con il vecchio zio Julian. Sono quasi completamente isolati dal villaggio, poiche' tutti ritengono Constance colpevole dell'omicidio di diversi membri della famiglia. Complessivamente pero' se la cavano bene, le due sorelle sono legatissime e lo zio e' una compagnia piacevole.
A rovinare il clima e la routine arriva il cugino Charles.

Io ho un immenso problema con l'autorità. Riconosco e rispetto quelle ovvie, genitori, professori, forze dell'ordine, datori di lavoro. Ma quando una persona che sta sul mio stesso livello si permette di cercare di esercitare su di me un'autorità che nessuno le ha concesso allora quello che provo è un odio infantile e violentissimo.

Figuratevi sto cugino Charles, apriti o cielo. La Jackson con un solo, viscido e insulso personaggio è riuscita a farmi salire la bile in gola. E io di solito non me la cavo male con la gestione finzione/realtà. Fatta eccezione per un caso di cui parleremo presto. 

Il suo arrivo turba un equilibrio apparentemente perfetto, in cui convivono le due sorelle, che si destreggiano e combattono contro il mondo insieme.
Si, il mondo, perché le sorelle Blackwood non escono mai di casa. Merricat va al villaggio per le funzioni necessarie, ma per il resto del tempo vivono completamente isolate. I loro genitori, il loro fratellino e la loro zia sono morti avvelenati anni prima, e nel villaggio è opinione certa che la responsabile sia Costance. 
La poveretta quindi è terrorizzata dagli esseri umani, non si mostra a nessuno, rifugge ogni contatto. Anche perche', ogni volta che ce n'e' uno, per le sorelle ci sono solo problemi e costanti attenzioni indesiderate.

La lettura e' rapidissima. Sia per le poche pagine, non si arriva alle 200, sia per lo stile con cui e' narrata la storia. A parlare e' Merricat, che usa un linguaggio davvero basico che vi permette di poter leggere il romanzo in lingua anche se non avete troppa dimestichezza con l'inglese. Se pero' da un lato abbiamo una gran fluidita' lessicale, i contenuti sono strato dopo strato piu' intensi.
Niente e' come sembra, qui. Nemmeno l'eta' delle sorelle, primo grande sconvolgimento che ci regala la Jackson.
Certo, non aspettatevi epiche scene d'azione o magistrali colpi di scena. E' tutto molto lineare e semplice, sussurrato, come ha avuto modo di sottolineare King.
Eppure, ti sbraita dentro.
L'orrore, la solitudine, la crudelta', non sono mai violentemente palesati, ma sono ben presenti in ogni pagina.
Ma alle sorelle va bene.
Loro sono felici cosi'.


sabato 20 dicembre 2014

Non solo cinema: La strada

10:04
Post con spoiler perché non ne facevo da un po'


Per il mio compleanno, R e un gruppo di pazze persone che immagino mi vogliano molto bene mi hanno regalato un ebook reader. Io leggo da che ho memoria, e so da fonti certe che quando ancora non potevo leggere per ovvia incapacità avevo persone che leggevano per me. Non sono certo una feticista della carta, però, benchè sia una di quelle strambe creature che annusano i libri. Desideravo un lettore da tempi immemori e ora il mio piccolino è il mio migliore amico e il principale compagno di merende.

Questa intro che avrà sicuramente rivoluzionato la vostra giornata serve a dirvi che grazie al mio trekstor riesco a leggere molto più di prima. Più libri = più libri horror.
E quindi eccoci qui, con un nuovo ingresso nel blog che non vuole diventare una rubrica fissa con cadenza regolare (come se poi io ne facessi), ma un modo in più per condividere con voi quello che mi piace.
Ma sempre di horror parliamo, perchè sono una persona molto originale.

Ho voluto iniziare con McCarthy perchè penso sia il modo migliore per ricordare a chi ha problemi di memoria o di comprensione dell'ovvio che l'horror non è solo sangue squartamenti fantasmi mostri killer orrore e sconvolgimento.
L'horror può penetrare più a fondo, può gettarti nello sconforto, nella perdita completa della speranza, nella desolazione di una condizione che non ha soluzione.
Vah che poetessa.

Può essere horror la storia di un padre ed un figlio, che vagano per la strada senza vita di un mondo distrutto. Non sappiamo cosa sia successo, cosa abbia ridotto il pianeta ad uno scheletro di se stesso, ma non è rimasto niente della società come la conosciamo.
Padre e bambino non hanno più una casa, non godono più della compagnia della mamma ma nemmeno di quella di nessun altro essere umano. Camminano in mezzo al gelo, senza una meta reale, senza un luogo sicuro, costretti ad accendersi il fuoco ogni sera per non morire assiderati, alla ricerca di cibo nei modi che possano.
Privati di tutto, non hanno nemmeno un nome.

E tanto è gelida l'aria che padre e figlio repirano, tanto è fredda la scrittura di McCarthy, che è ridotta all'osso e minimale.
Cerca ogni tanto di scaldarci cuore e pensieri con qualche momento di tenerezza padre e figlio, ma sono solo attimi sporadici che portano una consolazione momentanea.
Perché a questa condizione non esistono consolazioni, perchè non ci sarà un rimedio.

Ed è, questa, una consapevolezza che ti colpisce duramente a fine libro.
Ti affezioni a questi due signori, a questi due vagabondi per necessità, e quello che vorresti non è altro che vederli insieme ad altre persone, in un luogo caldo e sicuro, perchè quel freddo che ti è narrato cominci a sentirlo anche tu, che ti prende nelle ossa. Vorresti vederli tornare a fidarsi del prossimo, vorresti che fossero in tanti i 'buoni che portano il fuoco'.
Ma quando concludi la lettura capisci che la speranza lì non sta di casa. E ti atterrisce.

Perché è un inserimento graduale nelle loro vite quello che mi ha malridotta di più.
Nelle prime pagine nemmeno mi piaceva, sto La strada. Andando avanti, però, ti ritrovi a vedere con i tuoi occhi che proprio la strada è l'unica cosa che hanno, oltre l'un l'altro. E non esiste situazione più disperata di quella di una persona che deve vedere il proprio mondo scomparire. L'autore ci fa capire chiaramente quanto l'unico ad avere subito una gigantesca perdita sia il padre. Il bambino in questo rimasuglio di mondo ci è nato. E' la sua normalità.
Il padre aveva tutto e ora ha solo il suo bambino.

Ripenso quindi a tutte le volte che sono triste, o che semplicemente ho una giornata no.
Ascolto le mie canzoni preferite, scrivo sul blog, esco a comprarmi la mia focaccia preferita, faccio due passi fino alla piazza del paese e scorro le vetrine.
Non sono cose che fanno passare la ragione della mia tristezza nè rimediano alla mia giornata di merda, ma mi rimettono nel giusto ordine di cose, mi riportano con i piedi per terra, mi calmano. Sono piccole azioni apparentemente inutili ma di cui ho bisogno quando qualcosa non va.
E se nella mia vita improvvisamente qualcosa non andasse e io non avessi nemmeno una delle mie piccole coccole per stare meglio? E' un circolo vizioso di dolore, una sofferenza in tondo che non può avere fine.

E nonostante tutto, nonostante le volte in cui ha pensato che sua moglie avesse fatto la scelta migliore, il papà parla ancora a suo figlio del volo degli uccelli.
Una lezione di speranza che voglio fare mia, e regalare a voi.

Buon Natale a tutti!

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