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martedì 12 luglio 2016

The Invitation

13:07
Ah, quando vi mettete in massa a parlare di una cosa io non resisto: devo venirvi dietro.
The Invitation è solo l'ultima di una serie di fisse che hanno investito i miei adorati colleghi blogger e, come al solito, non per niente.

L'invito in questione è quello che Eden invia agli amici di un tempo. Una cena, una reunion, a cui sono invitati anche l'ex marito, Will, e la sua nuova compagna. Sembrerebbe una bella cosa, io alle cene con i miei amici mi diverto assai, e invece. . .


E invece niente, non succede niente. 
Mettetevi comodi, perché se aspettate dei fatti ne troverete ben pochi.
The Invitation è un film di lunghezza standard, si supera di poco l'ora e mezza, per la maggior parte della quale non si vede un mezzo episodio che sia uno.
Eppure.

Will arriva, saluta gli amici, ci sono baci, abbracci, nostalgia, il fantasma di un evento tragico che aleggia su di loro senza quasi mai uscire del tutto. Una chiacchierata seduti insieme, un bicchiere di vino, qualche gioco per scaldare l'atmosfera.
Ma l'atmosfera è già calda, caldissima, e noi ce ne accorgiamo da subito.
Lo sguardo sospettoso di Will è chiaro fin dal primo istante. Qualcosa non è come se lo ricordava, o come se lo aspettava. Già la prima discesa di Edie dalle scale ci puzza un pochino. 
Le nostre sensazioni si bloccano lì, però. Qualcosa puzza. Finisce male. Ahiahiahi.
Però i minuti scorrono e non succede niente. Allora, o siamo pazzi noi e Will oppure qualcosa arriva.

Arriva, tranquilli.
Ma quasi quasi il punto non è quello, sebbene gli ultimissimi secondi di film siano incredibili. Quello che succede prima è intuibile, ma quell'istante finale. . .
Ohi ohi ohi.
Il punto, in realtà, è come ci siamo condotti, a quel finale. E ci siamo condotti benissimo, in punta di piedi, circondati di persone interessanti e credibilissime (il paradiso del politically correct, ci sono tutti: bianchi, neri, asiatici e omosessuali, non si fa torto a nessuno). Will è un uomo torturato, ogni respiro è per lui sofferenza, e ce lo mostra benissimo, perché ha uno sguardo di un'intensità rara. I suoi amici sono meno 'approfonditi', ma tutti reali nella loro semplicità.
Talmente reali che, quando Will comincia a palesare le sue perplessità, lo prendono un po' per scemo e le sottovalutano. Che poi hanno anche ragione. Io sabato ho cenato con i miei amichetty di una vita, se mi fossi alzata a dire che secondo me c'era qualcosa di bizzarro se non altro mi avrebbero preso a cuscinate.


Insomma, un'ora e mezza che campa di dubbi, disagio e staticità.
Mi rendo conto che messa giù così non faccia proprio venire un voglione di vedere The Invitation, ma io fossi in voi lo guarderei anche se la lentezza non vi dovesse piacere. Prima di tutto tratta del più straziante dei lutti con un'eleganza e una delicatezza che sono proprio adeguate.
E poi vi garantisco che i brividi della scena finalissima si fanno aspettare ma ne vale la pena.
Eccome se ne vale la pena.

lunedì 4 luglio 2016

Krampus

10:27
Ho avuto due importanti giornate di merda. Di quelle in cui se ti tagliano non sanguini.
Avevo bisogno di Cinema, di quello che diventa terapia e che ti riappacifica col mondo. Quello che ti calma per un po' e illude chi ti circonda del fatto che tu non sia proprio la bestia che sei in realtà. Qualcosa che fosse dolce, e un po' amaro, e un po' nostalgico, e un po' triste, e un po' tenero. E che fosse anche un po' cattivo.
E quindi, Krampus.


Avevo beatamente ignorato il trailer per il motivo che segue: non sopporto il Natale.  Scusatemi.
Non che sia un Grinch che insulta e risponde inacidito a chi invece le feste natalizie le ama, semplicemente nell'intimità della mia cameretta non riesco a sentirne alcuno spirito. E quindi, lo ignoro. Tranquilli, il Natale non se la prende e per tutta risposta ignora me.
Krampus è la storia di un bambino che, con ottime motivazioni, perde la fiducia nel Natale. Lui, che era sempre stato così affezionato alle feste e alla figura di Babbo Natale, ad un certo punto è messo alla prova, e perde il suo spirito. Le conseguenze le paga tutta la famiglia.
Una specie di Bran Stark, però meno stupido.
La tensione è palpabile dal primo momento, e non certo per colpa del Krampus: la recita scolastica è stata irrimediabilmente rovinata proprio per mano del giovane Max, mamma e papà aspettano con ben poco entusiasmo i parenti, chiassosi, repubblicani ed insopportabili, la sorella di Max è innamorata, ha altro per la testa, e questo altro niente ha a che vedere con vischio e presepe. L'unico supporto sembra arrivare dalla silenziosa e paziente nonna.
(Ho un debole per gli anziani, vi prego di perdonarmi se questo post avrà spesso parole d'amore per la nonna)
Lo spirito del Natale lì è bello che andato, la cena viene organizzata tanto perché le belle tradizioni americane borghesi vogliono l'arrosto di prosciutto e l'albero alto fino al soffitto. Prima o poi questa tensione doveva esplodere: ad uccidere la finta pacatezza di circostanza ci pensano le cugine, che credono sia divertente umiliare pubblicamente Max, leggendo a voce alta la sua lettera a Babbo Natale.
Sarà lui a umiliarle, dimostrando che la sua (supposta) ingenuità altro non è che bontà reale, di quelle che si incontrano una volta nella vita o due. Questo comunque non gli impedirà di cercare di prendere a botte queste cugine che pesano tre volte lui.
Le botte sono il meno: eventi bizzarri e personaggi inquietanti arrivano a dimostrare alla felice famigliola che il Natale è ben altro.
E per quanto io abbia trovato bellissimo il Krampus e adorabile la storia della nonna bambina, non sono stati loro il punto.
Improvvisamente tutti si riscoprono uniti.
Il desiderio di serenità (natalizia e non) di Max era stato palesato, suo malgrado, quello che invece stava silente dentro ognuno degli altri si stava manifestando nei modi più diversi: vecchie decorazioni conservate insieme ai ricordi che si trascinano dietro, cioccolate calde preparate nel rassicurante silenzio di chi si prende cura degli altri senza farne un vanto, inaspettato sostegno tra sorelle, il sacrificio per salvare gli amati, un'invadente zia antinfanzia che per tutto il film si coccola la bimba piccina.
Il fatto che io non vada cercando questo spirito di cui sono mancante non significa che non auguro a chi invece lo desidera di trovarlo.
Non vi dico se i sogni di Max si avverano, vi dico solo che arrivare a scoprirlo è bellissimo.

lunedì 27 giugno 2016

The Conjuring - Il caso Enfield

14:38
Due settimane fa ero in sala, lo schermo stava per proiettare The Neon Demon. Partono i trailer, che io malsopporto ma che il cinema mi propina forzatamente ogni volta. Parte quello di The Conjuring - Il caso Endfield. Mi convince, guardo Riccardo con sguardo sognante, ricevo come risposta un netto 'No.'
(Riccardo, lo dico per i lettori occasionali, è la povera anima che sopporta la mia ben poco gradevole compagnia. Tenetelo a mente, perché è molto presente sul blog e sarà il protagonista di questo post che prevedo di una lunghezza sconsiderata.)
Riassunto per gli impazienti: mi è piaciuto tanto e mi ha fatto paura.
Avrei solo preferito vederlo senza essermi coccata il trailer prima.

Siccome la femmina della coppia sono io, ecco quello che è successo:
al cinema ci siamo andati
colma di misericordia, ho acconsentito a far venire con noi il nostro amico scemo, affinchè Riccardo avesse un'ulteriore manina da stringere qualora la tensione si fosse fatta insostenibile, il che è avvenuto abbastanza alla svelta. Tutto si può dire di Wan, ma lento proprio non è.
Per raccontarvi cosa altro è successo ieri sera, devo sottoporvi a qualche spoiler ma niente di che.

Il caso Enfield che dà il (sotto)titolo al film è quello della famiglia Hodgson. È una vicenda piuttosto nota a chi, come chi scrive, bazzica per storie paranormali che si spacciano per vere. Se anche solo una volta avete cercato faccende simili su Google siete sicuramente incappati nella storia di questa madre divorziata, con quattro figli a carico, una situazione di ristrettezze economiche e fenomeni bizzarri ad infestarle la già malconcia casa. Sicuramente avete visto questa foto da qualche parte:


La trama del film, insomma, è questa. Madre sola, figli piccoli in età scolare, entità che si palesa a disturbare la loro (mancata) quiete. In particolare ad essere presa di mira è Janet, la minore delle figlie femmine, 11 anni. Per capire cosa succede e valutare se sia il caso di richiedere l'intervento della Chiesa Cattolica, intervengono gli amatissimi e bellibelliinmodoassurdo Warren, i soliti Ed e Lorraine a cui vogliamo così bene. Se la Farmiga e Wilson dovessero mai figliare, cosa che spero perché qui è partita una ship di quelle importanti, ne uscirebbe una creatura dalla chiara appartenenza angelica. Galeotta fu la scena in cui quel bell'uomo di Patrick Wilson, armato di chitarra e sguardo pieno d'amore, canta ai bambini la sola canzone di Elvis che mi sia mai piaciuta, I can't help falling in love with you.

Ciò detto, passiamo alla cosa che mi ha incuriosito di più durante la visione, oltre ovviamente al film: Riccardo, e il suo modo di guardare i filmacci brutti che fanno paura.
Facciamo una piccola presentazione del personaggio per i soliti lettori occasionali di cui sopra.
Lui guarda un buon numero di film, ha una certa esperienza, ma le sue preferenze vanno sempre sul fantasy e sulla fantascienza pura. Parliamo di uno che tutte le sere dice una preghiera a Gandalf e che non è ancora certo di avere superato la dipartita di Han Solo, eroe della sua infanzia. Gli horror gli fanno una discreta paura, ma questo non lo ha mai fermato dall'accompagnarmi (nonostante gli sia stato fatto notare che posso andare al cinema da sola e cavarmela, EHM).
Quando inizia a salire la tensione, lui ha un rituale che al confronto Nadal prima di battere pare non faccia niente. Intanto, parla. Ridacchia, cerca dettagli in scena (e lui ha un occhio per i dettagli insignificanti che non ho mai trovato in nessun altro), commenta le cose a voce alta. Ho quasi la sensazione che dire le cose a voce alta lo aiuti a riportarle nella loro dimensione di finzione. La cosa peggiore, però, è che inizia a farmi i grattini sul polso, sempre nello stesso identico punto, rischiando di mandarmi alla neuro.


Questo volendo ci potrebbe anche stare, diciamocelo. La paura è lecita se non sacra, e The Conjuring 2 la sua bella paurina la fa eccome. C'è qualche spaventino di quelli da saltello possente sulle poltrone, ma poca roba. Come era stato con il primo film della saga (la possiamo già definire così?) Wan ha trovato il punto di forza nel creare atmosfere incredibilmente funzionanti, e se la paura del saltellino passa subito, l'aria pesante resta dentro e anche quando finisci il film e vai a mangiare una gigantesca pizza di quelle alte una spanna ti senti il fiato sul collo. Il fiato di un vecchio.
La cosa di Riccardo che mi infastidisce/incuriosisce di più quando siamo al cinema, però, è la sua totale incapacità di sospensione dell'incredulità. (Tre volte al contrario allo specchio e il mio faccione spunterà a torturarvi nel sonno)
Non è capace di godersi un film per intero, così com'è. Lui deve mettere in dubbio, lui deve capire alla perfezione, lui cerca di 'risolvere il caso' prima che lo faccia il film, lui vuole LO SPIEGONE. E io, ogni singola volta, gli dico di rilassarsi, di godersi quello che viene, di lasciarsi trasportare. Ma lui niente. Ci provo a dirgli che il bello è proprio quello, è proprio sentire crescere la tensione, sapere che ti spaventerai (perché lo sai sempre), spaventarti comunque, e provare quel sollievo tipico che si percepisce quando finalmente il male ha un volto che non sarà mai brutto quanto quello che stavi immaginando.
Esempio, che secondo me vi fa capire ala perfezione di che tipo stiamo parlando: Janet è APPESA AL SOFFITO. Tenuta su dalla forza malefica che sta cercando di farsi largo dentro di lei. Viene improvvisamente risucchiata attraverso il soffitto, per ritrovarsi nella stanza al piano di sopra. Risucchiata, Attraverso. Il. Soffitto. Per entrare nella stanza ritenuta il centro delle attività paranormali. La scena non è impressionante a vedersi, ma sta 11enne stava appesa al benedetto soffitto! Ha attraversato la parete!
Sua reazione: 'Sì ma sta roba non è possibile!'
Trattengo il 'MA VAH?' a malapena. Questo si guarda i film in cui la gente combatte nello spazio con le spade laser (le spade laser) ma se in un horror in cui si parla di fantasmi e demoni una bambina passa attraverso le pareti a lui pare strano. E il 'tratto da una storia vera' non c'entra, eh. Non gli torna e basta.


Ora, perché parlare così a lungo delle sue reazioni al cinema? Perché sono reazioni comuni ad una fetta molto alta di popolazione. Immagino non sia un'esclusiva del multisala di Cremona, secondo me i giovani che fanno così li avete anche nel vostro cinema. Certo, poi magari non tutti vanno a vedere su Google le corrette classificazioni dei demoni, ma capite bene che se questo sta con me da quasi 5 anni bene bene non sta.
Ma forse è questo il punto di The Conjuring - Il caso Enfield. Ha tutte le potenzialità per piacere a chiunque, per intrattenere chiunque. Ognuno poi ne trae quello che più lo aggrada: se sei un'ingegnere psicopatico passi le due ore a cercare spiegazioni fisiche a fenomeni che proprio per loro natura non ne hanno, se magari sei un appassionato di orrore ti siedi e ti godi lo spettacolino che Wan ha preparato per te, se sei scemo come il nostro amico cerchi le immagini di gattini su Google per resistere. Sono due ore di giostra, che passano come se fossero il minuto convenzionale di Blue Tornado. Sta a te decidere se chiudere gli occhi e farti sballonzolare in giro dai binari o se studiare come la meccanica ti porti così in alto senza farti cadere.
Tanto fa paura comunque.

venerdì 29 aprile 2016

Lo squalo

20:11
Vi devo dire una cosa, però promettetemi che state calmi.
Spielberg mi sta un po' antipatico.
Sarà che lo conosco poco, sarà che sono troppo giovane per far parte di quella generazione che ha lasciato il cuore su E.T., sarà quello che volete, ma a me lui è sempre piaciuto poco.
E questo, lo comprendo, sarebbe un ottimo momento per far partire il defollow istantaneo.
Ma perché scappare proprio ora, quando io e S.S. ci stiamo conoscendo un po' meglio?

Il vero motivo per cui siamo qui riuniti oggi, a cercare di mettere una pietra sopra le mie passate ostilità verso SS, è uno solo: il GGG.
La mia ossessione per i libri è da attribuirsi a quattro signori, che hanno cullato la Mari bambina fino a renderla il mostro fissato con le parole che è adesso: J.K.Rowling, chiaramente, Bianca Pitzorno, Roberto Piumini e Roald Dahl.  L'ipotesi di un film sul Gigante Gentile mi scalda profondamente il cuore. Diretto da SS, si dice.
E allora eccomi qui, a cercare di fare pace con l'uomo che darà al mio omone un volto.
Inizio con gli squali, ché se vi dico che fino ai 25 anni non avevo mai visto il Signor Squalo mi mettete il muso.

SERVE UNO SPOILER ALERT? IO NON CREDO.


Ho sempre paura, quando guardo questi Grandi Film.
Che non mi piacciano, di non capire la loro influenza su chi è venuto dopo, di non sapere come parlarne. . .
In questo caso le mie paure erano elevate al cubo, perché non è che a me fregasse poi molto di vedere un film su uno squalo gigante che mangiava le persone. Mi dispiace, lo so. Ogni tanto vorrei essere una di quelle persone che amano i mostroni e si esaltano con l'azione, ma non è così, fatta eccezione per quei momenti in cui odio il mondo e lo voglio vedere finito almeno nella finzione. Sono solo momenti, però, di solito resto freddina.
L'ho visto per completezza, perché mi sembrava giusto guardare prima di giudicare, e blablabla.

Stavo in panciolle sul divano, convinta che dopo 10 minuti secchi mi sarei addormentata anche grazie alle 23 ore di lavoro in due giorni che avevo alle spalle. Non mi ero nemmeno preparata la merenda, cosa surreale, non si guardano i film senza mangiare.
Copertina, ché siamo quasi a maggio ma fa un freddo cane, cuscino, pc caldo sulle gambe. Mi davo giusto qualche minuto prima di soccombere.
Risultato: occhi incollati allo schermo.
La mia testa ha iniziato a scuotersi dall'alto verso il basso più o meno al minuto 18: squalone magna bambino. Io lì pronta sul bordo del divano, la mano sul bordo dello schermo del pc pronta a chiuderlo con sdegno: aspettavo la scena straziante della mamma urlante. E invece. E invece costumino che torna a riva, e bam, cambio scena.
Schiaffetto in faccia a farmi vedere chi comandava e io tornata cheta al mio posto.
Non sto ancora facendo plausi a SS, non fraintendetemi, ma quando il regista si esime dal lasciarsi andare a piccolezze dalla lacrima facile, io batto furiosamente le mani.
GRAZIE.

E questo rispetto per il lutto compare sempre, perché non è la sofferenza dei parenti delle vittime ad interessare, nè a SS nè a noi. Che ce ne frega, quelli sono affari loro, son cose private. Qua abbiamo una cittadina dal tenero nome che vede le persone morire una dopo l'altra ma che se ne fotte completamente (sentite che francese), perché se qua non lavoriamo moriamo tutti, oh.
Ehm.
Ci sono giusto due stramboidi che pensano ai morti, ma a cui nessuno crede, perché lo squalo è stato catturato, e credere che quello sia l'animale giusto non solo ci fa sentire a posto con la coscienza, ma ci permette anche di riaprire le spiagge, che è quello che a noi importa. Giusto giusto per il 4 luglio, festa dell'americano medio, a cui per l'appunto l'unica cosa che sembra importare è il guadagno.


Poi, chiaro, c'è lo squalo.
Mai nella vita avrei pensato che un film su uno squalo avrebbe potuto farmi paura. Vivo in Italia, gli squali giganteschi ammazzagente li sento come un pericolo troppo lontano da me per temere per la mia sopravvivenza e per quella dei miei cari. Qui, invece, è successa una cosa bizzarra. Ho tremato dalla tensione. È, mi permetto di fare un paragone di quelli rischiosi, il discorso della suspence hitchcockiana: sappiamo che sta per succedere qualcosa, lo sentiamo perché il film in qualche modo ce l'ha detto (e questa musica, ne Lo Squalo, funziona benissimo a dispetto della sua notorietà), ma i personaggi non ne hanno idea, il pericolo si avvicina e noi vorremmo gridarlo all'ignara vittima, ma ovviamente non possiamo, quindi quel qualcosa di brutto succede e noi ne usciamo stremati.
Due ore così.
Ho avuto l'impressione che SS abbia sempre saputo dove fermarsi: mostro il dolore della mamma che perde il figlio, ma non lo faccio ostentare, creo un falso allarme per stemperare un po', ma lo faccio solo una volta, poi sono volatili senza zucchero, vi schiaffo un po' di sangue ma senza piogge rosse.

Tregua, però, non ce n'è stata data fino alla fine: due ore di pianti e stridore di denti.

sabato 16 aprile 2016

The boy

11:10
Sto per copiare un post, vi avviso.
L'altro giorno su facebook ho trovato questa recensione. In poche parole, è un chilometrico post in cui si prende un libro (in questo specifico caso il primo lavoro della Troisi), e lo distrugge parola per parola. Argomentando in maniera esemplare, però, se no è troppo facile. Capito che scoperte rivoluzionarie faccio, io?
Quindi, visto che il signore del link di cui sopra mi ha aperto un universo, gli copio l'idea, tiè.

Da qualche tempo a questa parte non ho parlato di film brutti semplicemente perché è da un po' che non ne incontro. Se non uscivo convinta dal trailer molto semplicemente stavo alla larga dal film, ché a me la mentalità del 'lo vedo lo stesso per giudicare' non fa impazzire. Al massimo ho trovato cose mediocrine di cui non avrei avuto niente da dire se non 'meh', quindi mi pareva inutile scriverci un pezzo stiracchiato tanto per fare numero. Ricominciare a farlo dandogli un senso, però, mi sembra più intelligente piuttosto che tornare a fare dei post tipo 'prendiamo in giro questo film perché fa schifo!'. (E VOGLIO ricominciare a guardare anche i film brutti, perché mi voglio divertire pure io.)
Sempre scoperte rivoluzionarie? Mi ringrazierete dopo, dai.


Per fare per bene il mio lavoro, stavolta, mi sono informata.
Il film è diretto da William Brent Bell, la cui manina ha firmato anche La metamorfosi del male e L'altra faccia del diavolo. Film visti: 0/2, sono aggiornatissima. Quantomeno sono partita senza pregiudizi. Anche perché il movie database la sufficienza gliela dà, Rotten Tomatoes lo liquida con uno spietato 29%. Fine del mio livello di informazione.

Partiamo dalla stessa domanda da cui parte l'autore dell'articolo che vi ho linkato su: perché questa roba ha trovato una distribuzione? Peraltro, una buona distribuzione: nel mio multisala di fiducia. quello di cui mi lamento sempre ma in cui non smetto di andare, era presentato con un gigantesco cartonato tutto blu messo all'ingresso in modo che a nessuno sfuggisse che DEBOI, l'horror dell'anno, era in sala. Certo, la statistica era dalla sua parte. Se una cosa è brutta è più facile che qua da noi le venga data una possibilità.
Animo da madriterese del cinema? Buoni samaritani della pellicola? Vediamo il bello anche nelle situazioni tragiche?
Chi lo sa.
Sta di fatto che quando in giro si scoprono film più piccini ma intriganti e benfatti, qua non abbiamo chance di vederli in sala, e da questo punto in poi ci starebbe bene una riflessione sulla pirateria che vi risparmierò. E qui mando un bacio con la manina e la duckface a Honeymoon, Starry Eyes, Spring e It follows. 
Se fossi capace come l'autore originale a questo punto farei ipotesi sul motivo del successo di certi film poco impegnati e generalmente (con le dovutissime eccezioni) pessimi, ma mettendomi dalla parte dell'utenza media del cinema mi viene solo da pensare che siano film molto semplici.
Esci con gli amici, vuoi un filmettino che vi faccia un po' strizza (e in genere questi prodottini funzionano dal punto di vista dei sussultini sulla sedia), senza pensieri nè complicazioni, una cosina come DEBOI va benone. Fa cagare, ma va benone.
E quindi ne escono sempre di più, tanto qualche pirla ci va sempre, a vederli in sala.
Ma questi sono solo pensieri superficiali, non ho le competenze per andare troppo a fondo sulla questione. I soldi facili che questi prodotti portano potrebbero essere investiti in cose meno a favore di mercato, quindi chi sono io per chiedere ai signori produttori di smettere?
Ma, e queste non vogliono essere domande retoriche ma oneste riflessioni che mi viene da fare e di cui voglio parlare con voi, possibile che il guadagno sia la PRINCIPALE spinta di una realtà come quella cinematografica? Non vivo sulle nuvole, pago le bollette e so che nessuna attività vive d'amore per l'arte, ma cosa spinge una casa di produzione ad investire in quello che è evidentemente uno script scadente? Su questo poi ci torniamo.
Altra domanda che a questo punto mi sorge: perché la gente ha paura di impegnarsi? Perché cerchiamo film leggeri in modo da 'staccare' il cervello? È comprensibilissimo, tanto è vero che, come dicevo su, mi impegno a ricominciare con i FDM, ma perché ci limitiamo a quello? Perché riflettere anche al cinema ci fa paura?

Ma vediamo il film nello specifico, prendendolo come quello che è: uno dei tanti horrorini che escono tanto per trasmettere qualcosa nella sala sette in cui non si sa mai cosa sbattere.
DEBOI parla di Greta, ragazza statunitense che per scappare da una situazione difficile si rifugia in Gran Bretagna, dove è stata assunta da una coppia come babysitter del loro bambino, Brahms.
Che non è un bambino, è un bambolotto.


Pausa di riflessione: se le bambole vi inquietano statene pure alla larga che qui è tutto un mostrare il faccino tondo e sorridente in favore della luce delle candele. Oppure andate a vederlo proprio per quello, almeno avete qualche speranza di provare qualcosa durante la visione.
Se, come a me, i finti bimbi non vi arrecano danno, andate tranquilli che è una passeggiata.

Andiamo con calma dall'inizio: DEBOI ha iniziato a non piacermi dopo i primi minuti. E da questo momento in poi attivo lo SPOILER ALERT!
Greta arriva in casa, nessuno la accoglie, lei entra e si guarda intorno. È giorno, ma tutto è cupo, scurissimo, manco una luce accesa (e questa cosa delle luci tornerà). E qui parte tutta una serie di inquadrature che si vede troppo (TROPPO) quanto si sforzino di inquietarti. I corridoi bui, e le teste degli animali impagliati in penombra, e i ritratti, il tutto ambientato in una casa vittoriana bellissima e gigantesca che francamente non ha senso di esistere. Quando abbiamo deciso che la casa era un personaggio del film? Se stessimo parlando di case maledette, che sappiamo piacerci tanto, ti appoggerei l'impresa, che qua a Redroomia le case vittoriane tutte scure ci piacciono assai. (Avreste dovuto vedermi a Praga. Tutto cupo, e gotico - romanico, con le chiese imponenti e spaventose, mi sentivo come una bambina per la prima volta a Disneyland)
Ma non capisco questo sforzo sovrumano di creare l'atmosfera.
Guarda, amico mio, ti dico una cosa io che non ne so niente: hai per le mani un bambolotto. Asso nella manica incredibile, puoi giocare con quello, ma non sforzarti troppo di condurmi per mano verso la Paura.
Perché a me fa un po' tenerezza questo tuo sforzo incredibile che sembra che devi fare la cacca dura, e penso tu concordi con me che la tenerezza mi ostacola un po' lo spavento.
Faccio un esempio a favor di lettori che non hanno ancora visto il film: la messa a tacere repentina del suono, in un momento che tu mi stai indirizzando a vedere come di tensione, mi fa capire che in quel preciso momento succederà qualcosa.
E se me lo aspetto, non mi spavento più.
E sia chiaro che qui non serve fare i grandi intenditori di cinemone: basta avere visto anche giusto due cose come Bianca e Bernie o Grease per non farsi invischiare in faccende del genere. Semplicemente, non funzionano.

È tutto troppo lampante, niente è lasciato in sospeso, niente ci tiene attaccati allo schermo per vedere come finisce. Avrei anche voluto scrivere un post semplicemente sui cliché che non si riesce manco a contare, ma a che pro?
A cosa vi servirebbe sapere che, per l'ennesima, frustrante, volta, abbiamo due giovani bei ragazzi che, sempre per qualche strano caso sono entrambi single e pronti ad innamorarsi l'uno dell'altra, che dopo due volte che si sono visti sono pronti a perdere la vita l'uno per l'altra, che sono incredibilmente capaci a flirtare e che provano istantanea simpatia?
Perché lo fate?
Perché non ci provate neanche, a offrirmi qualcosa di diverso?
Perché nel 2016 una povera cretina si alza da letto in piena notte e anzichè accendere la luce o usare la torcia del telefono come qualsiasi cristiano usa una candela?
Perché non mi regalate un minimo di approfondimento, ci sono due personaggi DUE buondio, fammeli conoscere. Greta da quando scopre che il bambolotto è in realtà un bambino, o un fantasma, o boh, subisce un istantaneo cambiamento, come quando butti la candeggina sui vestiti e in due secondi questi perdono il colore.
Donna con profondo istinto materno a cui la vita ha strappato la prole che allora riversa tutto il suo amore su un cazzo di bambolotto.
Di Malcom si sa giusto il nome.
Non contano niente questi due esemplari, come non  conta niente il bambolotto, non conta niente la noia, conta solo che ti faccia pauuuuuuraaaaa

E come te la faccio, di nuovo, la paura?
Ti mando in scena un uomo violento e lo faccio comparire grande grosso e inquietante e poi faccio le inquadraturine spaventose dove ha il viso in penombra così ti inquieeeeeto.
Questo di violenza sulle donne ne sa meno di niente. Come se gli uomini violenti avessero tutti le sembianze di Khal Drogo, come se invece di solito non fossero omuncoli piccoli, dall'aspetto banale, comune. Come se ci fosse bisogno di penombrargli il viso per renderli spaventosi.
Gli uomini violenti sono terrificanti alla luce del sole, brutto deficiente. Fanno già paura, sono il Male. Smettila di perdere tempo.

E invece, di tempo se ne perde.
Se ne perde in bizzarri esperimenti scientifici in cui si dimostra che il bambolotto si muove, se ne perde con delle telefonate mute, soprattutto se lo scherzone del telefono me lo fai più di una volta perché NON. FUNZIONA. PIù.

Ci prova troppo, WBB, ci mette anche il finalone sorpresona, e si prende incredibilmente sul serio.
Peccato.

Va beh alla fine la recensione seria ed argomentata mica mi è venuta troppo bene.
Facciamo che ci riprovo un'altra volta, ok?

lunedì 14 marzo 2016

Starry Eyes

20:48
INUTILE SPOILER ALERT, IL FILM L'HANNO VISTO ANCHE I SASSI

Riassunto delle puntate precedenti: l'anno scorso, o forse due anni fa, la blogosfera in massa ha parlato di Starry Eyes. Io, come mio solito, ho segnato e recuperato con tempi biblici.
C'è una frase che riassume perfettamente i post degli altri: che protagonista di merda.
Non che non sia brava l'attrice, anzi, è stata bravissima, era proprio il personaggio che era una persona disgustosa.
Per i primi 40 minuti ho pensato che fossero tutti esagerati. Dai, un po' snobbina, un po' troppo sulle nuvole, ma non è così male sta creatura.

La creatura si chiama Sarah Walker ed è una cameriera di Los Angeles, il che sapete, se avete visto almeno un episodio di The Big Bang Theory, che significa che il suo sogno è fare l'attrice. La povera sprovveduta finisce a fare il provino sbagliato.

Cosa succede dopo 40 minuti?
La Sarah, che il giorno prima si era licenziata per seguire il suo SoGnO!!!!1111! torna con la coda tra le gambe nel fast food con il quale campava per riavere il suo lavoro. Il capo, che stupidamente si riprende questo cilindrico pezzo di cacca, le dice 'Sei una ragazza del Taters', e lei lo ripete con un disagio, con una rassegnazione e con un'autocommiserazione che mi hanno causato quasi rabbia cieca.


Analizziamo il mio odio verso questo detestabile umano.
Questa non ha 18 anni, eh, ne ha un po' di più. Penso si possa parlare di una trentenne o quasi. La suddetta trentenne o quasi ha una vita che potrei definire col più banale degli aggettivi: normale.
Ha degli amici (mediocrissimi umanoidi con tanta 'passione' ma poca sostanza, ma ricordiamoci che gli amici te li scegli), un lavoro, e un sogno. Niente di eccezionale.
Potrebbe lavorare sodo per realizzare il suo sogno, potrebbe vivere la sua vita con entusiasmo, potrebbe essere quasi felice. Sia chiaro che non parlo di fastidiose donnette forzatamente gioiose alla hills che sono alive in the sound of music, parlo di semplice approccio migliore alla vita.
E invece no. Lei è talmente concentrata su se stessa e sulla sua malata fissazione per il successo da non vedere nemmeno il mondo che la circonda (perché questa faccenda della setta ci era palese dal primo momento in cui si è visto un - pensate un po'- pentacolo, ma lei no, lei è stronza ma pure un po' tarda), come ci è molto chiaro quando Erin, una delle amiche, accusata di dormire con un amico solo per ottenere una parte, le chiede: 'Non hai mai pensato che potrebbe essere altro? Non hai mai pensato che potremmo piacerci?'.
Eh sì, cara Sarah. La gente vive. E non per il successo, vive e basta.
Se anche tu fossi arrivata in cima, cosa ti sarebbe rimasto? Il nulla. Gente sconosciuta che ti avrebbe amata, magari, ma nessuno vicino se non il tuo stratosferico ego. Per cosa avresti vissuto, allora? Se tutta la tu vita ruotava intorno ad un obiettivo, cosa avresti fatto una volta spuntato questo dalla tua lista delle cose da fare?
Questo non è sognare.
Sognare dà alla tua vita mille sfumature di colore in più, non te la distrugge così.
La sana ambizione è splendida, ti fa alzare la mattina con la voglia di essere sempre la versione migliore di te stessa.


Se solo fosse stata più umile, questa Sarah, quanto avrei pianto la sua triste sorte. Se fosse stata un'umile e ingenua ragazzina con troppa fiducia e troppa poca conoscenza del mondo avrei singhiozzato per giorni.
E invece no.
Sarah era un'adulta troppo convinta e compiaciuta di se stessa, Lei era migliore di quel branco di losers con cui era costretta ad uscire. Lei era brava, lei era arrivata, lei aveva un sogno e lo avrebbe realizzato ad ogni costo, questi bifolchi non facevano altro che tarparle le ali.
Ed è questo che l'ha ridotta in quello stato mostruoso.
(Postilla: il film è stato girato con una banconota da 5€ stropicciata, vorrei tanto abbracciare chi si è occupato del makeup, bravi al cubo. Una scena in particolare mi ha dato i brividi)
Quello che intendo è che era proprio la sua estrema fiducia in sè a causarle quelle devastanti crisi di nervi: Io sono brava, come posso non  avere successo? Come posso proprio IO, che ho un sogno così importante, a non riuscire? Questo è proprio inspiegabile!
E via di capelli strappati.
Eh, ciccia.
Dalla mediocrità ci si può innalzare, si può crescere. Se senti di essere già in cima non puoi salire di più, e finisce molto banalmente che quando poi caschi (e caschi, tranquilla che caschi) ti fai un malone dell'accidenti.

È stato interessante non avere la minima empatia per un personaggio, per una volta. Forse ho anche apprezzato che per una volta la 'vittima' non fosse l'anima innocente.
Ma al momento sto indossando il mantello della giudicatrice di atteggiamenti altrui, e questo è quello che ne esce.

(E il film è bello, che immagino sia la sola che magari in realtà vi interessi)

mercoledì 9 marzo 2016

#CiaoNetflix: The Grudge

16:20
Questo paradisiaco servizio un difetto doveva avercelo. Lo amo a sufficienza da lasciar correre, ovviamente, ma il suo catalogo horror per il momento fa piangere.
Siamo intorno alla trentina di titoli, tutti grossomodo famosi, Saw, Silent Hill, The Ring. . .il filone per ora è quello.
Si trovano anche cosine più intriganti, eh, c'è quella preziosa valle di lacrime che risponde al nome di The Orphanage, ci sta Existenz, e pure Sharknado. Ma siamo lontani dalla sufficienza per ora. SO che col tempo cresceremo insieme, io e Netflix-.

Per dimenticare le faccette della Judith di cui parlavamo ieri mi sono messa a rivedere un horror uscito nei miei anni del liceo, pieno periodo in cui ogni titolo era remake di qualcosa altrimenti non lo facevano uscire.
The Grudge forse è uno dei più famosi, uno di quelli che hanno visto anche i sassi.

Se voi non apparteneste alla specie minerale, mi tocca raccontarvi che è la storia di Sarah Michelle Gellar e Max di Roswell, Lei è un'assistente sociale, grossomodo, va a fare una visita a domicilio ad un'anziana. In casa ci stanno i fantasmi.
Tutto chiaro?
So che è complesso, ma fate uno sforzo.


No, dai che scherzo, non c'è niente di meno complesso di The Grudge.
In un altro momento lo avrei liquidato come FDC, ma in realtà non è riuscito a farmi antipatia.
Ci prova a ricalcare i suoi amici orientali, ma a parte parecchi occhi a mandorla, un paio di fantasmi che più classico di così c'è solo il lenzuolino con i buchi, di jappo ci riesce proprio pochino. Non che io mi consideri un'intenditrice, sia chiaro.
Ma qui è tutto troppo patinato e sbrigativo per riuscire a suscitare anche solo un po' di inquietudine, ci prova lui, povero, ma non gli riesce.
Secondo me è anche colpa del cast di canidi, che sembra spaventato tanto quanto il mio gatto quando parte la centrifuga della lavatrice. Stesso livello di timore, un saltino leggero e fine, livello di consolazione necessaria: rumore della scatola dei croccantini.
Quando le persone parlano dei cliché degli horror tendo ad innervosirmi, ma se ne volete un breve compendio, vi è servito su di un piatto d'argento, tiè, prodotto da Raimi. Il pacchetto comprende anche lo spaventino finale che tanto ci aggrada.

E no, stavolta non mi sono emozionata, nemmeno con la triste sorte dell'amore non ricambiato, non c'è stato verso di prendermi in alcun modo.


Ribadisco, voglio un po' di bene a tutta la faccenda, al periodo a cui è legata, alle colline che hanno ancora gli occhi, ai fantasmi giappo che però sono americani, alle telefonate che ti diagnosticano i tuoi ultimi 7 giorni e al fatto che fossero praticamente tutti dei filmacci tremendi ma che in fondo gli volessimo un po' di bene, perché vederli ci faceva sentire delle femmine toste.
A quell'età, certo.
Anche perché rivisto oggi The Grudge ci regala uno dei peggiori personaggi femminili che si ricordino, in confronto a questa Gellar siamo tutte delle Sigourney Weaver.

lunedì 7 marzo 2016

The Atticus Institute

16:51
Domenica sera, solita cena con i soliti Amici. Si parla di cose varie, tendenzialmente le solite, fino a che un amico mi chiede cosa penso dei demoniaci, io come al solito rispondo che li affronto con il coraggio che contraddistingue i gatti quando incontrano l'acqua.
Girando intorno all'argomento si finisce a nominare The Atticus Institute e io ribadisco il mio non volerlo guardare maimaimai nei secoli dei secoli.
E guai a voi se rispondete amen che proprio oggi non è giornata, eh.

Siccome, come vi dico sempre, la coerenza è il mio animale guida, oggi ho guardato sto benedettissimo film.
Lo sapevo, eh, lo sapevo come sarebbe finita. Perché li ho letti tutti i vostri post a riguardo, tutti quanti, e sapevo che mi avrebbe devastata dalla paura, ma quando si è testine di cazzo lo si è fino alla fine.


Per farla breve, l'istituto che dà il nome a questo stramaledetto film è un laboratorio di psicologia dove gli scienziati pazzi e creduloni esaminano persone che dicono di avere poteri paranormali. Sì, hanno visto qualcosina di vero, qualche truffa, però loro erano proprio appassionati, ci credevano parecchio, continuavano a cercare.
Cerca e ricerca, capita loro tra le braccia, come una manna dal cielo, Judith. Avete presente il momento in cui un nome si trasforma in un incubo? Fino a un'oretta e mezza fa il mio era Reagan, da oggi temo i nomi saranno due. Judith è una donna comunissima che inizia dopo una brutta caduta a fare cose un po' meno comuni. L'istituto non è in grado di gestire una situazione del genere da solo, soprattutto considerato che la presenza di Judith si sta rivelando più pericolosa del previsto, e quindi intervengono i pezzi grossi.

Fin dal primo istante ho saputo che guardarlo sarebbe stato un errore madornale, ma il momento in cui ho prenotato il mio posto per un viaggio di sola andata su Marte è stato quando uno degli intervistati (ne riparliamo, delle interviste) guarda fisso in camera, che gli dovesse mica venire una gobba, e dice qualcosa del tipo: 'Voi che state facendo questo film e voi che lo state guardando state attirando qualcosa di molto brutto nelle vostre vite.'
Boom, pc chiuso di scatto, lanciato fuori dalla finestra, valigia riempita e pianeta abbandonato.

Ma servirebbe? NO perché la stronza di Judith ha sempre controllato tutto e tutti pur apparendo così 'sottomessa'. Io potrei scappare fuori dalla galassia, ma se lei volesse ostacolare la mia respirazione lo potrebbe fare a migliaia di chilometri di distanza. Può fare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. E questi piccoli sprovveduti credevano di controllarla. Pivelli.
Scena (ATTENZIONE SPOILER): Judith legata alla sedia, chiusa in una teca di vetro come un animale da esposizione, le vengono fatte domande a cui lei risponde con versi incomprensibili. I versi vengono interpretati e cosa stava dicendo lei? Stava suggerendo le domande da farle! Cosa???!! Mi sono venuti tre capelli bianchi.
Ci provano con qualche spaventino più 'studiato', ma (incredibile ma vero) con me non è che abbiano fatto particolare presa, sono quelle cose qui che a me lasciano con la voglia di evadere.


Ma parlavamo delle interviste.
Oh, a me sono piaciute tantissimo. Quarant'anni dopo e la gente ancora terrorizzata al solo pensiero di  quella Judith, con i ricordi nettissimi di quanto accaduto perché troppo sconvolgente da rimuovere, persone con ancora un profondo senso di colpa per quanto avvenuto agli altri coinvolti...bravini gli attori e bello il tutto, tiè.

Certo, la povera Judith si è presa qualche accidente da me, me ne dispiaccio. In fondo lei è vittima tanto quanto gli altri. Qualcuno, per fortuna, durante il film se ne è ricordato. C'è stato un rapido 'È un essere umano!' che mi ha un po' riportato sulla faccia della terra.
Poi niente, lei si è messa a strepitare e io pure, dalla paura.

Avrei solo voluto un finale un po' diverso da quello di Paranormal Activity. 

martedì 23 febbraio 2016

Cloverfield

08:50
Che poderose giornate di merda, signori.
So che le avete anche voi, e non starò certo qui a lamentarmi.
Ma oggi sono incavolata come una iena, quindi esigo mostri giganti che uccidono l'umanità. Voglio vedere gli esseri umani spazzati via dalla faccia della Terra, non li sopporto più, basta, voglio solo voi virtuali che notoriamente non siete persone vere.

Siamo a New York, alla festa che i suoi amici hanno tenuto per salutare Rob, in partenza per il Giappone, dove una sfavillante carriera lo sta aspettando.
Sembra che il problema più grosso della serata sia che il festeggiato si è lasciato scappare la donna dei suoi sogni, fino al momento in cui la terra inizia a tremare, ma non c'è nessun terremoto.

Raramente ho visto found footage COSì sforzati. La camerina a mano per me è l'amica che ti mette in imbarazzo ma che adori, ormai lo sapete bene, ma in questo caso, davvero, abbiamo tirato la corda un pochettino troppo.
Se vogliamo continuare a mettere dita in grosse piaghe, possiamo anche dire che difficilmente si sopravvive ad un elicottero che cade, così come non si corre se si è appena stati infilzati con qualcosa, e sempre nel mondo in cui siamo, la testa della Statua della Libertà non sembrerebbe avere quelle dimensioni.


Credete queste siano critiche mie?
Nossignori.
Stanno in giro sull'internet.
Tutte verissime, per carità, lo so io, lo sapete voi, e ci scommetterei le chiappe che quello che lo sa più di tutti è il signor JJ, che qui indossa il camice del produttore.

Ma onestamente, a qualcuno interessa?
Perché io ero sul divano ad ammirare grattacieli crollati, militari in posizione, una GIGANTESCA bestia che corre anche piuttosto veloce, strutture d'emergenza piene di feriti, pianti e disperazione.
E va bene così!
Questo volevo, oggi, e questo ho avuto.
Ne consegue che Cloverfield mi sia piaciuto.

Magari in un altro momento mi avrebbe fatto pietà, e questa consapevolezza mi porta come sempre a chiedermi perché mi ostino a scrivere dei film senza averci riflettuto nemmeno per un istante. E su quanto la vita reale influenzi il nostro modo di amare ciò che reale non è.
Ero incavolata nera (lo sono spesso, sob), ho visto una cosa che ha sollevato i miei pensieri dalla testa e che ha distrutto l'intera Nuova York, mi sono sentita meglio.
Quindi è vero che il cinema non deve essere solo drammi impegnati e filosofeggianti sul vero e profondo senso dell'esistenza. Ogni tanto vogliamo a tutti i costi mantenere l'allure dei cinefili intellettualoidi e ce lo dimentichiamo. (pluralis maiestatis)


In fondo va anche bene così. Leggiamo riviste sinistroidi che parlano di cinema d'essai dai titoli incomprensibili e dai significati che lo sono ancora meno, e il giorno dopo ululiamo cori da stadio di fronte ad uno dei principali simboli del mondo occidentale che viene decapitato da un mostro gigante.
Si chiama equilibrio, e ci sto lavorando.

sabato 6 febbraio 2016

La Cueva

16:01
VI ROVINO IL FILM. LETTORI AVVISATI...


Cara, cara Bego,
io sono te, e tu sei me.
Una rognosa piattola con un bassissimo livello di tolleranza.
Ti ho vista e ti ho amata.
Ti ho vista avere paura di volare, e ti avrei abbracciata, perché devi sapere che a me manca il respiro solo a guardare l'inceneritore di Brescia perché è alto ed azzurro, pensa un po'.
Ti ho vista arrivare a Formentera e anziché lanciarti in banalotto (seppur sempre gradevole) divertimento da spiaggia ti ho vista lanciarti con i tuoi amici all'avventura, in un campeggio abusivissimo e isolato. Le mie avventure rispondono al nome di Airbnb, ma insomma, è lo spirito a valere.
Ti ho visto, che tu in quelle grotte mica ci volevi andare. E io, come te, pensavo a che idea del cazzo fosse entrare in una grotta sconosciuta sperando che le cose finissero bene. Non succede mai.
Certo, hai una compagnia terrificante, Bego, amici infimi e con uno scarsissimo quoziente intellettivo, ma non è questo il punto del nostro disquisire.
Sei stata la più rompicoglioni del film, ma sei stata realissima. Basta con i finti eroi, con l'ostentazione di un sangue freddo che avranno sì e no cinque persone al mondo.
Se ci perdessimo in una grotta e stessimo morendo, la maggior parte di noi persone reali farebbe quello che hai fatto tu: si accoccolerebbe per terra a piangere tutte le proprie lacrime sperando nella Divina Assistenza. Ci lasceremmo morire, salvo poi supplicare pietà nel momento in cui la morte si avvicina davvero. E per questo ti ho voluto bene, e ho sofferto tanto con te. Per te. Per quella scena un po' forzata, forse, ma che non escludo sia possibile. Stavano morendo di fame e parlavano di te come se fossi già carne da macello. E invece eri lì e li sentivi parlare di mangiarti. Anche il destino (o il culo, se vogliamo parlare di cose in cui credo davvero, ché il destino è una cagata cosmica e lo sappiamo entrambe) ti si è rigirato contro.
Ho sofferto con te e con la tua Celia, e anche un po' per quella faccia di merda dell'amico vostro pelato. Ti stava mangiando una gamba, ma ha chiesto di non essere ripreso proprio in quel momento. Come se l'oscurità togliesse realtà a quello che stava accadendo: se non lo vedi non è reale.
Ho voluto bene anche a lei, Celia, silenziosa e senza pretese per tutto il film, da bravo personaggio che doveva contrapporsi a te, per poi tirare fuori un misero e fallimentare tentativo di rivalsa.
E allora via, inseguimenti nelle grotte, minacce di morte, insulti.
Tra esseri umani che avevano invece un bisogno estremo di collaborare.
Meno male che sei morta prima, Bego.
Meno male che non hai visto la bassezza dell'animo umano, quella che tiriamo fuori solo quando salvarci la pelle diventa più importante di qualsiasi altra cosa, della legge statale e di quella morale. Conserva l'immagine dei tuoi amici fuori dalla grotta, cinque pirla dall'ironia un po' infantile e dall'ubriacatura facile.
Quello che c'è dentro quella cueva non ti sarebbe piaciuto.

domenica 24 gennaio 2016

Cinema Italiano I love You: Shadow

14:41
SPOILEEEEER! NEI SOTTERRANEI, SPOOILEEEER!
Io ve l'ho detto.


Quando i cinebloggers chiamano io sto sempre lì, in prima fila, col braccio alzato a scalpitare per partecipare sempre. Stavolta Alessandra, sempre di Director's Cult, propone il cinema italiano, tanto per ricordare a chiunque bazzichi da queste parti che non siamo solo Checcozaloni.
E io non è che mi drogo.
Shadow è un film italiano davvero, fidatevy.
Diretto dal buon Zampaglione, tanto per darvi conferme.

Premessa, io sono contenta che Zampaglione esista e si sia messo dietro la mdp.
Il catalogo italiano offre commedie che generalmente mal tollero oppure filmoni intensi e importanti pregni di significato e di denuncia sociale. E va bene, queste cose vanno bene, ci vogliono. Ma se sono solo queste è mica vero che al quarto film italiano di fila io devo sbattere ripetutamente la testa contro il muro?
CHE NOIA.
Il mio caloroso benvenuto va quindi a qualsiasi proposta che si discosti da questo percorso che chissà quali circostanze hanno contribuito a creare.


In Shadow abbiamo un reduce di guerra partire per un viaggio per l'Europa, per lasciarsi tutto alle spalle. Durante una gita in bici in montagna incontra una giovane, con la quale metterà i bastoni tra le ruote ad un paio di cacciatori che non la prenderanno molto bene.
La vera morale del film ti insegna che anche quando credi di essere il più cattivo, ci sarà sempre qualcuno più cattivo di me.
E se ti prende sono volatili senza zucchero.

Non mi sono mai messa a parlare dei significati metaforici di un film perché io poetica mai. Non inizierò certo adesso, mi limito a linkarvi questo post de Il Buio in Sala. Nono solo il buon Giuseppe fa una delle sue inimitabili analisi, ma lo stesso Zampaglione nei commenti ha illustrato i suoi intenti.
Niente di quello che potrò mai dirvi io potrà mai valere più di quello che ha detto chi 'sto Shadow l'ha creato.

Quindi, come al solito, parliamo di sensazioni a pelle. (E a proposito di pelle vi comunico che io, sempre sul pezzo, scopro la storia della pelle dei rospi solo guardando questo film, #Zampaglioneperilsociale)
La mia, di pelle, non è ricoperta di droghe, il che è utile se devi lasciarci entrare le sensazioni che ti sta trasmettendo un film. In questo caso avrei quasi preferito di essere un agglomerato di sostanze illecite, perché sotto la pelle mi sono entrati sporcizia, malanno, senso di colpa. Mi è penetrata nei pori l'aria sporca, scura, malsana che si è respirata nell'ultima parte,
Mi si è risvegliata una profonda repulsione per la guerra, che credo sia insita nell'essere umano. Mi è salita la paura, ho sentito il pianto di un bambino e mi sono venuti i brividi.
E quella palpebra tagliata, rivista con la consapevolezza che non fosse una tortura casuale è raggelante.
Con me Shadow funziona, alla grande.


E poi, lo spoiler.
Avete presente quando un film si avvicina al finale e vi ritrovate a dire: 'Adesso è tutto un sogno, eh, minimo!'
Ecco, stavolta lo è davvero.
Incredibile.

Non sono ovviamente la sola ad avere parlato di cinema italiano, però. Ci hanno pensato anche loro:
Solaris: Io sono l'amore
White Russian: Non essere cattivo
Pensieri Cannibali: Non essere cattivo
Director's Cult: Il volto di un'altra
Non c'è paragone: Basilicata Coast to Coast
In Central Perk: Maicol Jecson
Bollalmanacco: Almost Blue
Delicatamente perfido: Italiano medio

martedì 5 gennaio 2016

Mi metto in pari: Goodnight Mommy

13:41
HO TRATTENUTO PER SETTIMANE QUELLO SPOILER Lì GIGANTESCO, FATEMI FARE ALMENO QUESTO QUA.

Siamo a gennaio e se come me siete usciti da un tempo (relativamente) breve dalle scuole ricorderete che a gennaio si inizia la maratona per recuperare i debiti.
Su MRR, quindi, approfittiamo del primo mese di questo nuovo anno per recuperare tutto quello (se va beh, tutto) che ci siamo persi l'anno scorso.
Iniziamo con Goodnight mommy, film quasi assente dalle vostre classifiche di fine anno. Il Bradipo, però, lo ha messo tra i migliori. Ad accrescere ulteriormente le mie già notevoli aspettative arriva il trailer.


Due gemelli,  una madre che è la loro ma forse no, una splendida villa immersa nella natura austriaca, pochissime parole (di cui una, 'Lukas', ripetuta fino allo sfinimento), solo un numero impossibile da contare di sguardi.
Un minimalismo incredibile, che in altre circostanze mi avrebbe condotta dritta dritta tra le braccia di Morfeo e che invece questa volta mi ha massacrata emotivamente.

È di una lentezza impegnativa, eh, sto Goodnight Mommy, ma è altrettanto pieno di fascino. È un film in cui si entra nel vivo del dolore, nel punto in cui la ferita fa ancora malissimo, e ci si ficca un gigantesco coltello dentro, e lo si gira, lo si continua a girare con incredibile sadismo.
Non che sia un film bastardo, eh.
Non è di quelli che alla fine ti fanno venire voglia di prendere il dispositivo su cui lo hai guardato per fargli fare la fine della Gabbianella a cui il Gatto ha insegnato a volare.
È piuttosto uno di quelli che ti fa credere di essere una cosa per poi rivelarsi tutt'altro.


Sembra quasi un home invasion, sembra che una sconosciuta si sia presa quel ruolo di madre che non era il suo. E invece è la storia di una donna a cui il ruolo di madre è stato strappato violentemente. E le resta solo la parte più difficile, la ricostruzione di quello che resta a chi è sopravvissuto. Deve farlo in quanto madre, anche se posso solo provare ad immaginare quanto possa essere stato doloroso continuare a preparare i pasti anche per il figlio morto, solo per assecondare il desiderio di quello sopravvissuto.
Ci sono piccoli dettagli che, tornati in mente a fine visione, fanno presa sul cervello e sul cuore: per esempio il momento in cui la mamma per dimostrare l'evidente assenza di Lukas mostra ad Elias come ci sia solo un cambio di vestiti, e mostrare a noi spettatori che quel singolo cambio lo indossano a turno entrambi i gemelli, scambiandosi poi l'abbigliamento a metà film, è stato commovente.

Il centro del tema dell'identità del film sembrava essere questa donna bendata (funzionano un casino ste bende, che angoscia), ma si rivela poi essere Elias, che deve ricostruire se stesso come individuo a sè stante, e non più come fratello di Lukas.
Straziante ed inimmaginabile.


Siamo dalle parti di The Orphanage, qui lo dico e qui non lo nego.


giovedì 15 ottobre 2015

Spring

15:01
All'inizio dell'anno ho visto un film, si chiamava Honeymoon. 
Ogni tanto ci ripenso e ogni volta vorrei piangere. Mi aveva rubato cuore e sentimenti e oltretutto, dettaglio non da niente, quando mi torna in mente il volto di lei che spunta dalla barca dopo avere fatto quello che ha fatto mi piglia un brivido infinito dietro il collo di quelli che ti arricciano i capelli.
E per arricciare i miei serve un miracolo.

Per questo quando si è iniziato a parlare sul web di Spring io ho preso tempo. Non sono dotata di sentimenti ricaricabili, non posso permettere al cinema di privarmi di ogni lacrima, me ne devo conservare qualcuna per dare una parvenza di umanità alla mia vita reale.
Quindi, esattamente dieci mesi dopo, posso dirmi pronta ad affrontare la visione di un film che è piaciuto a TUTTI.
Se non mi piace son fregata. Mi tocca chiudere il blog.


Spring è la storia di Evan, che si rifugia in un paesino della Puglia dopo che la sua vita in California ha smesso di avere un senso. Sua madre è appena morta, suo padre manca da tempo, per colpa di una rissa è impelagato con la polizia e ha perso il lavoro. In Puglia trova una giovane, Louise, con la quale nasce una storia. Non è tutto così idilliaco come sembra.

Quando l'horror decide di incontrare l'amore lo fa con una raffinatezza che se per favore le commedie romantiche si vogliono spostare qui abbiamo discorsi profondi da fare, la porta è in fondo a destra, dove ci stanno sempre i cessi. Honeymoon, citato sopra, era un ritratto di coppia incantevole, Lasciami entrare (qui il post) riprendeva l'amore in un'età in cui forse parlare d'amore è un po' precoce ma senza dubbio adeguato, Spring parla di un amore che sta nascendo e che prima ancora di diventare tale si scontra con una realtà che potrebbe ostacolarne l'evoluzione. Tutti e tre sono di un'eleganza che lascia sgomenti.

La coppia che nasce in questo film in particolare, poi, riprende un po' le caratteristiche delle coppie degli altri due che ho elencato. La complicità e il divertimento sono quelli di Paul e Bea, la sincerità e la semplicità della comunicazione sono quelli di Eli ed Oskar.
Perché la cosa che più ho amato di questo film è stato che si parla un sacco.
Per ovvi motivi voi non lo potete sapere, ma io sono fissata con i dialoghi. Quando scrivo qualcosa la prima parte che mi viene in mente sono i dialoghi, quando parlo con le persone presto un'attenzione maniacale alle loro scelte lessicali mandando fuori di testa chi è costretto ad essere sottoposto a questo continuo esame da parte mia, cerco sempre di cogliere quello che si dicono le altre persone non perché sia curiosa delle loro vite ma perché le parole mi affascinano come poche altre cose al mondo.


Spring è un lunghissimo dialogo tra due persone che si stanno conoscendo ma che hanno scelto di non indossare maschere e far fruire i discorsi liberamente, con una naturalezza che gli invidio molto. Ci hanno provato, Louise soprattutto, ad interrompere questa relazione per tutelare chi non sarebbe stato in grado di affrontarne le conseguenze (e di nuovo, qui, l'amatissima Bea che nasconde al marito la verità su cosa sia accaduto nel bosco) ma tale era il loro discorrere, così fluido e spontaneo, da non poterlo trattenere oltre. Dal primo, sudatissimo, appuntamento, questi due hanno parlato, e parlato, e parlato, e guardarli entrare a parole sempre di più nell'intimità uno dell'altra è stato un piacere per il cuore e la mente.
Tanto quanto quella resa finale, con il sole che sorge e niente che cambia.
E nessuna parola detta più, perché a quel punto non ce n'era bisogno.

Come non c'è bisogno di sottolineare i piccoli difetti di ricostruzione dell'Italia che i due addetti ai lavori hanno fatto, Non sarebbe una critica utile a nessuno, e comunque lo splendore della Puglia fa passare in secondo piano il fatto che i contadini anziani è difficile che parlino un'inglese così fluente.
Un saluto dalla pallosa grigia e nebbiosa Pianura Padana.

lunedì 7 settembre 2015

A girl walks home alone at night

09:00
(2014, Ana Lily Amirpour)

L'avete visto tutti Johnny Depp a Venezia, vero?
Impossibile che non sia così, ne stanno parlando tutti. E' brutto, è ingrassato, ha infranto i nostri sogni, ha spento i nostri ormoni, e blablabla.
Parliamone.
Sono tutti così sconvolti perché non era esattamente quello che ci si aspettava. Perché non rispecchiava più quell'ideale che ormai viveva nelle nostre teste, perché era diverso da come credevamo sarebbe stato.
Sapete chi altro è così? A girl walks home alone at night.
Perché è un film sul vampirismo unico nel suo genere, che seppur citando e ricordando altre pellicole sul tema (ma mica possiamo vivere sulla luna, il mondo ci circonda e ci ispira, è naturale) è diverso da come lo avremmo creduto.

Siamo in Iran, in un'immaginaria cittadina chiamata Bad City. E' la raccolta dell'umanità più compromessa: tossici, spacciatori, prostitute, ragazzini costretti a elemosinare denaro. In questo ambiente nero si muove una ragazza, coperta dal suo chador, sotto cui nasconde capelli e segreti.


Esattamente come per l'arrivo di Johnny sul red carpet, avevo aspettative belle intense. Un po' perché blogger molto più competenti di me ne avevano parlato come di uno dei film dell'anno, un po' perché sapevo si trattasse di un film b/n sui vampiri. Ambientato in Iran. E tanto bastava a stuzzicare curiosità e fantasia (il Medio-Oriente è una di quelle zone del mondo che mi affascinano di più).
A fine visione vorrei avere le parole adatte per convincervi a chiudere questa pagina del vostro browser per invitarvi ad aprirne un'altra e cercare immediatamente questo film incantevole, ma non ne ho.
Vi basta sapere che è come Johnny Depp.
Diverso da come lo pensate.
Siamo abituati a vampiri resi glam da fenomeni di massa, al sangue talmente presente nelle pellicole da non spaventarci più, all'azione immediata e coinvolgente che non deve lasciarti respiro altrimenti il film è NOIOOOOOSO.
Ecco, questa giovane regista (è una donna! è una donna! in barba a voi maschilisti di sta grandissima ceppa di m, datele tempo e la signorina Amirpour vi mangerà in testa umiliandovi senza pietà) ha preso queste tre cose elencate sopra e le ha buttate dalla finestra. Violentemente proprio, credo abbia ferito dei passanti.
Ha girato un film introspettivo e intimista, lento fino all'esasperazione ma che riesce a non essere mai pesante, cupo, scurissimo, ma che paradossalmente scorre giù per la gola liscio e buono come lo yogurt alla nocciola della muller.
Ma soprattutto, ha girato un film SILENZIOSO. Le parole sono poche, ben studiate, il minimo necessario a darti un'idea di quello che accade tra i personaggi. Anche se gli occhi parlano molto di più. In particolare quelli della nostra protagonista, inquietante e silenziosa col chador addosso ed elegante come una giovane Ines De La Fressange con la sua maglia a righe e poco altro. La nostra amica Amirpour ha capito che il silenzio non è da temere come un nemico, lo usa come ciliegina su quella incantevole e fascinosa torta che è questo film dal titolo così interessante.


Esattamente come il povero Johnny, così chiacchierato perché, pensate un po', è invecchiato, e non è più il sexy trentenne tossico che si spatasciava sul letto con Kate Moss. E' diventato asulto, è tornato a concentrarsi sul girare film seri e smettere (spero una volta per tutte) di fare continuamente la macchietta di se stesso. Si è evoluto.
Spero sia la direzione del Cinema tutto, anche se, certo, almeno i capelli poteva lavarseli.


martedì 16 giugno 2015

Non solo horror: Prisoners

11:32
(2013, Denis Villeneuve)

Il giorno del Ringraziamento le figlie minori delle famiglie Dover e Birch spariscono. Accusato del rapimento è il giovane Alex, un ragazzo che soffre di un discreto ritardo. Viene presto rilasciato per mancanza di prove a suo carico, ma Keller Dover, il padre di una delle due piccole, è talmente convinto del suo coinvolgimento da decidere di rapirlo e torturarlo per fargli confessare il luogo in cui si trovano le bambine.

Io vi odio, quando indugiate sul dolore.
Quando girate quelle scene volutamente strappalacrime, magari anche con la splendida e malinconica musichetta sotto.
Vi detesto.
Mi pare di guardare Studio Aperto, e a me Studio Aperto causa frequenti conati di vomito e rush cutanei.



Prisoners, invece, non lo fa.
Esplora quantità di dolore quasi impossibili da narrare, ma mai che lo faccia con autocompiacimento, con voyeurismo, con volutissima voglia di strapparvi quelle lacrime di dosso.
Prisoners in due ore e mezza tocca punte di sofferenza atroci, e ce le mostra con una freddezza, un grigiore e un cinismo che sono quasi allarmanti.
Perché il regista non ci vuole in lacrime, ci vuole attenti.
E questo siamo.
Concentratissimi, lo sguardo immobile, la mente aperta sulle diverse vicende.

La sensazione che ne ho avuto è che il rapimento delle bambine e la conseguente indagine non fossero altro che un pretesto (ottimamente costruito, eh) per prendere in analisi il modo in cui due famiglie affrontano l'uragano di stress, dolore, e angoscia che le ha investite.
Da un lato la famiglia Birch è dignitosissima, soffre in un composto silenzio, rotto solo dallo sfogo della figlia maggiore.
La famiglia Devon, invece, crolla. La madre si affloscia su se stessa, è costretta a ricorrere a farmaci per riuscire a sopravvivere, a dormire. Il padre si trasforma in carnefice, la rabbia e il dolore gli annebbiano il senso dell'etica, ritrovare sua filia conta più di ogni altra cosa, anche di fronte all'evidente disturbo di Alex. Solo il figlio maggiore dimostra un'incredibile maturità, aiutando il padre e sostenendo la madre.
Altrettanto articolato è Loki, il detective che si occupa del caso, con il suo tic all'occhio, il suo atteggiamento duro e inflessibile, i suoi tatuaggi.


Ognuno di questi personaggi (tutti splendidamente interpretati, ma Gyllenhal è una BOMBA) si muove in questo impietoso panorama di provincia, così grigio e piovoso che pare una manifestazione dei cuori spaccati dal dolore.
Non si capisce chi sia il vero prigionero, qui, se le bambine prese in ostaggio o le famiglie imprigionate dalla sofferenza.

Un gran, gran film, in cui non esistono buoni o cattivi, ma umani ripresi in tutte le loro sfaccettature. Così, finalmente, la vittima non è solo il pover'uomo buono come un tocco di pane, ma anche l'uomo fortissimo, determinato, anche crudele. E il carnefice non è solo il folle, la persona detestabile e immotivata. Può anche essere una persona la cui mente è completamente annullata, anch'essa, dal dolore.
E tutto questo, insieme, non ti fa togliere gli occhi dallo schermo.
Per due ore e mezza che scorrono veloci come una.


(Ma l'attore che fa Alex non è ugualeuguale al moroso di Joan of Arcadia?)

giovedì 11 giugno 2015

Musarañas

11:26
(Esteban Roel, Juan Fernando Andrés, 2014)

Vi è mai capitato un periodo di freddezza?
Guardavo film ma mi lasciavano indifferente, mi mancavano le parole.
E qui lo sento, il vostro sospiro di sollievo.
Poi leggo di Musarañas.
Soprattutto, leggo Luis Tosar.
E il mio momento di silenzio finisce.

Montse è una giovane donna che vive rinchiusa in casa con la sorella minore. Non riesce a varcare la soglia di casa da anni.
Uno spiraglio di mondo esterno le si apre nel momento in cui soccorre Carlos, un vicino di casa caduto dalle scale, che da quel momento starà in casa loro fino a quando non si sentirà in grado di andarsene.


Prima d'ora non mi ero mai fermata a riflettere sul mio viso e sul modo in cui lo uso. Adesso, proprio perché ci sto pensando, mi rendo conto di quante volte nella vita reale il mio viso rimane come una maschera di cera, quando non voglio palesare qualcosa che sto provando, per esempio. Immagino sia una cosa che facciamo tutti, più o meno consciamente.
E' anche probabile, invece, che lo faccia solo io e faccia la figura della tonta, ma tant'è.
Ci sto pensando perché nella passata ora e mezza sono stata folgorata da uno dei visi più particolari su cui abbia mai posato lo sguardo: quello di Macarena Gomez. Una bellezza decisamente non convenzionale.
Stavo pensando al modo in cui usiamo il viso perché prima d'ora ho visto pochissime persone usarlo come fa lei. Perché quando hai dei lineamenti così particolari (e, quindi, riconoscibili) è facile cadere nel 'Ahhhhh! Ma quella è Macarena Gomez!'. E invece zero. Pur essendo quello il suo viso, all'apparenza anche poco truccato, Macarena è completamente annullata dentro Montse.


La cosa che però mi ha fatto cadere inevitabilmente innamorata di Musarañas è che di suo sia una pellicola davvero, davvero bella a prescindere dalla Gomez. E' sinceramente inquietante e claustrofobico (come non esce Montse di casa, anche noi ne siamo vincolati, salvo una piccolissima eccezione), la tensione, soprattutto nella parte finale, è quasi insostenibile. I colori sono tenui, quasi spenti, l'ambientazione è deliziosamente vintage senza strillare 'EHI! SIAMO NEGLI ANNI 50!'. E anche tutti gli altri attori sono di un signor livello (risalutiamo Tosar, in personaggi sempre più merda in ogni film che passa).
Eppure, l'interpretazione assolutamente fuori dalla norma della nostra protagonista lo eleva a film eccezionale. Lei, le sue mani costantemente in movimento e i suoi occhioni sbarrati. Lei che interpreta un personaggio così complesso, e sembra farlo con una naturalezza tale che mi fa dubitare della sua salute mentale anche nella vita reale.
Un personaggio, tra l'altro, incredibile. Fortissimo, combattutissimo, pieno di sofferenza. Un personaggio crudele ma a cui non si riesce ad attribuire alcuna responsabilità per quella stessa crudeltà. Io, che non ho mai desiderato entrare nel mondo del cinema ma solo fruirne dall'esterno, non posso che guardare con sconfinata ammirazione quello che una persona può fare con il suo corpo. Prenderlo, e renderlo quello di qualcun'altro.


Sono molto ammirata da quello che gli spagnoli riescono a mettere in piedi. 
Io mi trasferisco.

mercoledì 3 giugno 2015

Psycho Mentary

17:56
(2014, Luna Gualano)

Continuiamo a parlare di Liebster Awards.
Quando vi ho chiesto di consigliarmi un film mi aspettavo di leggere tra le vostre proposte tanti classici, tanti titoloni imperdibili.
E ci sono stati, per carità.
Ma voi, che siete mica un gruppo di pirlotti, mi avete presa per mano e mi avete condotta attraverso strade ben più inusuali del classico filmone autoriale che sapevamo già sarebbe stato grandioso.
Nico, del blog 50/50 Thriller, per esempio, mi ha parlato di un film di cui avevo solo letto qualcosa qua e là sulla blogosfera.

Psycho Mentary è un thriller - horror italiano.
Diretto da una donna.
E vi dò il colpo di grazia per farvi scappare: è un mock.
FUGGITE, STOLTI!

Tornate qua, fagioloni, che scherzavo.
O meglio, è davvero un film italiano dalle tinte belle cupe, e pure mockumentary.
Però è bello. Giuro.
Io non lo so come sia possibile, come sia successo un simile e splendido evento senza che i manifesti urlassero al miracolo, senza che il mondo crollasse, senza che si incrinassero le costole dei fratelli Vanzina.


Lucia, la figlia del senatore Silvestri, viene rapita da un uomo mascherato. Il riscatto richiesto per il suo rilascio è di un milione di euro. La somma viene rapidamente versata, ma pare che all'uomo mascherato un milione non basti più. Adesso ne vuole 10, per non uccidere una dopo l'altra tutte le altre vittime che aveva sequestrato. Facili, da trovare, 10 milioni...

Io son qui che non contengo la gioia, non so da dove è bene iniziare.
Abbiamo un mockumentary in cui ogni telecamera è giustificata! Davvero! Le riprese sono fatte dall'assassino stesso con lo scopo di mostrare le sue eroiche azioni al capitano Brunetti, che si occupa del caso, (e non solo, vedrete) per cui non ci sono motivi del cavolo a giustificare le riprese!
Davvero!
Ogni. Singola. Telecamera. ha un motivo preciso per essere esattamente dove sta.
E' una sensazione bellissima. Come una doccia fresca dopo una corsetta i primi di giugno.

Altra cosa, altra cosa.
Avete ogni tanto quella sensazione strana legata ai prodotti italiani, per cui vedere un film magari indipendente o sentire una canzone nella nostra lingua causa un disagio che ti costringe a cambiare?
Io ce l'ho.
Mi sa che si chiama imbarazzo.
Poche volte me ne salvo. Quando ascolto Mannarino, per esempio. O quando vedo film che sono ben recitati.
BEN RECITATI, capito?
Psycho Mentary ha anche ottimi attori. Non sono i soliti noti (e meno male, regà), non conoscevo i loro nomi prima di questa visione ma, signori miei (e se l'avete pronunciato come Crozza che fa Renzi high five), sono bravi.
E se pensate che stia parlando solo degli interpreti principali vi sbagliate. Sono proprio bravi TUTTI. La moglie di Brunetti, per esempio. Si vede in una sola scena, mentre parla con la sua bambina, e si potrebbe dire che nemmeno sta recitando.

Pensate che le cose positive siano finite qui?
NO.
Ce ne sono ancora, sono felice come una bimba sulle giostre.
La Gualano ci regala un paio di scene con un livello di gore abbastanza elevato, eppure sono quasi eleganti. La violenza, e il disgusto che essa suscita, non sono ostentati, nè volutamente screditati. Ci sono, e basta, quindi te li mostro in quanto tali ma non ho bisogno di cercare il tuo sguardo schifato. Non serve.
Perché il piano dell'uomo in maschera è molto più di questo, è molto più della 'solita' violenza oscena e scandalosa.
E' subdolo, è furbo, ma soprattutto è perfettamente lucido. Ogni minimo dettaglio è studiato per far sì che nessuno sia costretto a soffrire più di quanto non lo costringano a subire le scelte degli altri personaggi. In un colpo solo infierisce tremende botte al nostro Brunetti pur mantenendosi in un certo senso la coscienza pulita.
Costruendo una simile premessa, era difficile scivolare su un finale affrettato, magari troppo action come accade spesso in certi tipi di thriller. Con tutto il tempo che le occorre (e badate che parliamo di un film breve) la regista ci conduce verso la conclusione della faccenda, e lo fa in modo esemplare.

Per lasciarci poi con l'amaro in bocca.
Ora, non voglio esprimermi troppo a proposito della questione economica che incontriamo più o meno a metà film, perché non mi sono informata su quanto ci sia di reale e quanto sia invece fiction.
E' un argomento troppo spinoso perché io ne sappia davvero qualcosa.
Ma il valore della vita è inquantificabile. Il valore dei nostri affetti è inqualificabile. Una gran banalità, vero? Ci ho pensato spesso durante la visione, a come mi sarei comportata io, messa in una tale posizione piuttosto che in quell'altra. Perché mentre io me ne sto qui davanti al ventilatore a scrivere una non richiesta opinione su un film molto bello, da qualche parte nel mondo qualcuno sta morendo. I miei secondi stanno scorrendo allo stesso modo, le mie dita continuano a scrivere. Se quel qualcuno, però, fosse mio fratello, o il mio ragazzo, o qualcuno che amo, la mia vita sarebbe irrimediabilmente e inconsolabilmente spaccata.
Guardando il film, quindi, viene da chiedersi: e se potessi salvarli, fino a dove mi spingerei?
E' una domanda che al momento non ho il coraggio di farmi, perchè non ho il coraggio di ascoltare la risposta.

Unico rimprovero che mi sento di fare riguarda la scelta del cognome del nostro protagonista. Più volte mi sono dovuta correggere perché stavo scrivendo Brunetta.
Sia mai che parli bene di lui.






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